Biennale di Venezia. Il padiglione della Slovenia raccontato da Jaša (Mrevlje – Pollak)
Ci siamo quasi: manca poco più di un mese alla Biennale di Venezia. E noi proseguiamo a spron battuto per raccontarvi uno per uno i padiglioni nazionali. Per la Slovenia ci sarà un progetto che prevede l’alternanza settimanale di differenti azioni performative. A orchestrare il tutto, Jaša.
Il Padiglione sloveno della Biennale di Venezia 2015 assumerà la dimensione di un laboratorio aperto in cui nulla è statico e dove l’arte traduce lo spazio in un luogo di produzione in costante trasformazione. L’idea di base è la creazione d’infinite varianti del rapporto tra pubblico e artista, entrambi inclusi all’interno di un’installazione che può essere definita come un’architettura di azioni. L’area del padiglione si trasformerà in una piattaforma per diverse discipline creative: letteratura, fotografia, architettura, scultura, pittura, installazioni luminose, recitazione, canto, musica. Ecco i dettagli dalla voce di Jaša (Mrevlje-Pollak) (Lubiana, 1978).
Raccontaci meglio il tuo progetto, Utter. The violent necessity for the embodied presence of hope.
Il titolo comprende, in nuce, tutti i concetti che voglio enfatizzare. Utter richiama qualcosa di assoluto, mentre il verbo to utter significa proclamare, pronunciare, promulgare, dichiarare. Il sottotitolo, invece, si connette direttamente alle linee guida del progetto: viviamo infatti in un tempo di grande ansietà, nel quale un atto d’urgenza pare sempre necessario.
E l’arte che c’entra?
Secondo me l’arte può e deve reagire responsabilmente e conseguenzialmente, diventando uno strumento di ispirazione, sotto tutti gli aspetti, specialmente in merito a un ambito così definito come quello politico. La violenza per i politici non è nient’altro che un’aggressione diretta. Ma la violenza, all’interno del contesto artistico e manifestata attraverso l’arte, non come stile, ma più come urgenza, attraverso dunque un atto poetico, può essere ed è necessaria. Bisogna ristabilire un sistema valoriale che a sua volta ri-stabilizzi la presenza della speranza.
Che ruolo avrà il pubblico all’interno del tuo padiglione?
Il pubblico è il cuore, il centro di Utter. Ed è letteralmente posto nel mezzo. Non si tratta di interazione: ogni visitatore troverà il proprio punto, il proprio percorso di osservazione e trarrà la propria esperienza del progetto.
Com’è nato il progetto?
Il processo che ha portato ad Utter è durato circa tre anni. Periodo in cui sono riuscito, talvolta lentamente, talvolta freneticamente, a disegnare una forma astratta, un diagramma bianco. Fin da quando ho iniziato a lavorare con Michele Drascek, il curatore del padiglione, abbiamo steso su un foglio quel che più tardi sarebbe diventato una base fondamentale per Crystal C, risultato di un concept integrale che ha fatto seguito a una collaborazione scritta, trovando una propria forma in Structure of life. Il progetto ha seguito quasi parallelamente il mio spostamento a New York nel 2014: da quel momento ho iniziato a lavorare su un’entità che più avanti sarebbe diventata Utter, grazie anche a Rosa Lux e Michele Drascek.
Nonostante questo concatenamento e questo convogliamento di idee, Utter è un progetto assolutamente nuovo e inedito, includendo tutte le sue parti composte da molte collaborazioni. Allo stesso tempo, il percorso si manifesterà come una progressione logica di miei lavori precedenti.
All’inizio parlavi di speranza. Che definizione ne daresti?
Non ho una sola e personalissima definizione di speranza. Ritengo che sia necessario credere nella speranza come a una sorta di condizione mentale diffusa. Troppe promesse, specialmente in politica, vengono prese solo come mere parole. Suoni vuoti. E il termine speranza è uno di quelli. L’arte si misura con emozioni e strutture complesse, proprio come le visioni della speranza. L’arte, inoltre, dovrebbe e deve ispirare. La speranza, all’interno di questa dimensione, rappresenta una sorta di sentimento ottimistico e di approccio costruttivo. È un impulso.
Mi piacerebbe citare una frase, un passaggio di Sartre che ha rappresentato una delle ispirazioni iniziali mentre stavo lavorando al progetto, durante l’autunno dello scorso anno…
Citiamolo!
“Riconosco che la violenza, in qualsiasi forma possa manifestarsi, sia comunque una battuta d’arresto […] la speranza è sempre stata una delle forze dominanti nelle rivoluzioni e nelle insurrezioni e ancora sento che la speranza fa parte della mia concezione di futuro”.
Bene. Torniamo alle definizioni: ad “architettura” cosa rispondi?
Un’architettura è prima di tutto un’impronta ovvia di pensieri materializzati in un’era ormai trascorsa. Questo significa che un muro definisce sempre la mia percezione oppure limita la mia idea di uno spazio aperto solo perché sussiste la decisione di qualcuno, come un processo di pensiero estraneo che ha strutturato uno spazio prima di me.
Dall’altro lato, ogni architettura è da ritenersi come un foglio bianco e va trattato esattamente come tutti gli altri supporti/media. Proprio come un disegno comincia con il primo tratto di matita, così immaginare e intervenire nello spazio incarnano lo stesso gesto.
Questo in generale. E nel particolare? Come entrerà in dialogo il tuo progetto con la storia e l’architettura dell’Arsenale?
Il contrasto storico dell’Arsenale parla da sé, inoltre si presenta come la prima vera cornice della mia azione. Quel che una volta era una delle più grande strutture deputate all’immagazzinamento, concepite per serbare munizioni, oggi diventa una sede deputata all’arte. Da questo punto di vista, si potrebbe ipotizzare che la razza umana abbia fatto dei progressi.
Raccontaci del sopralluogo.
La mia prima visita negli spazi dedicati al padiglione è stata una miscela di emozioni che fluivano, un cortocircuito fra attesa e approfondimenti tecnici. Solitamente quando entro in uno spazio nel quale devo conformare e adattare la mia idea, comincio a lavorare sulle imperfezioni, sui dettagli. È una parte davvero specifica del processo e ci si sente storditi, come quando si accendono le luci dei neon alle 5 del mattino, il locale è in chiusura e la notte è finita più tardi del solito.
Il modo migliore per descrivere questo concetto è citare un’artista meravigliosa che quest’anno rappresenterà gli Stati Uniti alla Biennale, Joan Jonas: “Bisogna considerare uno spazio particolare fino a che gli occhi si offuscano e ogni bordo, ogni orlo si muove, per poi tradurre questa visione a un pubblico, utilizzando diversi dispositivi per alterare il campo visivo. Diversi livelli di suono, inoltre, vengono determinati da limiti, confini e distanze che accompagnano sempre l’attività del performer (un linguaggio di gesti, uno stato mentale). Come in un disegno, quando emerge dal foglio l’immagine finale, il pubblico diventa testimone di un disegno (e di un disegno all’interno di un altro disegno): un rituale. Un mito in forma pittorica”.
Quale sarà il legame fra il tuo progetto e il percorso principale di quest’anno, All the World’s Futures?
Viviamo in tempi assolutamente ansiosi. La linea tematica principale tracciata da Enwezor fa riferimento al fatto che un atto non possa essere perpetrato se non con urgenza. Ritengo che molti artisti percepiscano proprio questo. Ho la sensazione che quest’azione collettiva possa guidarci verso qualcosa di forte e bello, che potrà in qualche modo interessare, marchiare, cambiare i futuri di tutto il mondo.
Un pensiero che accompagni i visitatori al Padiglione della Slovenia.
In molte situazioni le ambizioni, le volontà degli artisti, così come le loro condizioni e i loro valori, sono incompresi nel mondo dell’arte, perché dettati dal mercato. Bisogna combattere per ottenere una completa, veritiera comprensione del lavoro, mostrandone le motivazioni che l’hanno nutrito. La nuda sopravvivenza rappresenta una realtà per molti, poeti e lavoratori. Noi dobbiamo ridefinire l’idea di successo: un pezzo d’argilla che può essere plasmato da molte mani in una nuova forma. Stare insieme non è solo un concetto o un insieme di parole: dovrebbe rappresentare una forma dello stare nel mondo.
Ginevra Bria
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