E se non tutto… L’editoriale di Marco Senaldi
“E se non tutto, almeno l’inizio”, cantava Lucio Battisti in “Almeno l’inizio” del pannelliano “Hegel”. Se neanche la totalità è più quella di una volta, è perché ormai parole come Tutto e Intero sono diventate obsolete. E così anche uno scontrino…
Qualunque cosa si fa in due o anche in quattro e pretende la conferma di se stessa. Spingi un tasto e l’alert ti chiede: vuoi veramente spegnere il computer? Vuoi veramente prelevare il tuo denaro? Vuoi veramente cancellare le mail (che peraltro stavano già nella cartella eliminate)? Ogni cosa si embrica in se stessa, produce gemmazioni, si reduplica, risorge proprio dove volevi sopprimerla.
Per questo ogni tentativo di semplificazione ormai è da guardarsi con sospetto. Non perché sia insincero, oppure perché, orwellianamente, il Ministero della Semplificazione è il nome in neolingua del Ministero della Complicazione (effettivamente, il Ministero delle Finanze potrebbe essere inteso come il Ministero della Povertà?), al contrario. Il problema è che i tentativi di semplificare, a livello generale o sul piano meramente individuale, sono autentici – e proprio per garantire la loro sincerità replicano se stessi, come la fatidica domanda se vuoi veramente svuotare il cestino del pc. Questo auto-replicarsi in automatico della semplicità è l’innesco della più promettente complicazione.
Il fatidico scontrino fa parte di questa serie di cose che si auto-duplicano e che, così facendo, smentiscono se stesse e, dentro di sé, combattono una loro aspra battaglia, sia pur contro niente. Lo scontrino già è una prova, una piccola evidenza alla seconda potenza, di un atto, un gesto, un desiderio; per fortuna l’hai conservato, in caso cambiassi idea, in caso l’oggetto ti risulti sgradito, in caso la transazione non vada a buon fine. Lo scontrino è la controprova di un avvenimento, ma proprio questo suo affiancarsi alle cose racchiude o preannuncia un sotterraneo malcontento; come una fiche del casinò è un doppione, ma chi si ricorda più di cosa.
Se questo non fosse sufficiente, è interessante osservare cosa riporta e come: per ogni acquisto, la tariffa viene registrata per ben tre volte, anche se la merce è una soltanto. La prima e l’ultima cifra potrebbero avere una funzione, il valore parziale che si riconferma nel Totale finale (con la maiuscola, come si addice in tali casi); ripetere l’uguale non serve, ma aiuta (chi?).
Ma il vero enigma è nel mezzo: perché viene riportato un tertium fra parziale e totale? E soprattutto perché chiamarlo “subtotale”? Subtotale sembra veramente la traduzione burocratica del lacaniano “non-tutto” (“pas-tout”) – quel rovescio della totalità che non è un suo pezzo, un semplice sottoinsieme, ma il vuoto costitutivo che la rende possibile, come il vuoto in mezzo all’anello della ciambella, o il “buco con la menta intorno” che “crea” la caramella. Il sub-totale non è né il parziale (a cui potevamo potenzialmente aggiungere un numero infinito di altri addendi…) né un vero Totale, che perentoriamente chiude la lista dei possibili e gli mette il punto fermo della somma effettivamente raggiunta (e dovuta). Il subtotale riassume in sé il senso dei tempi contraddittori in cui viviamo: la modestia del prefisso (“sub-”) unita alla sicumera del sostantivo (“totale”) genera un concetto bicefalo, una presenza inessenziale ma ineliminabile, che si annida fra una teoria della complessità (divenuta obsoleta) e una pratica della semplicità (ormai impossibile?).
A paragone della diffusione dello scontrino, pochi artisti hanno preso sul serio questo biglietto d’ingresso delle cose nel mondo; ma forse è troppo tardi, visto che si vocifera di eliminarlo. Un sano ed ecologico snellimento burocratico o l’anticamera della catastrofe? In ogni caso, un vero peccato: ormai c’eravamo affezionati. E se non a tutto lo scontrino… almeno al subtotale.
Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #23
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