Biennale di Venezia. Il padiglione del Lussemburgo raccontato da Paul Ardenne
Filip Markiewicz sta per installare a Ca’ del Duca una genuina Gesamtkunstwerk. Un’opera d’arte totale che analizzerà l’identità nazionale del Lussemburgo come se fosse un genoma, un cariotipo politico. La cura del padiglione è dello scrittore Paul Ardenne, e noi l’abbiamo intervistato.
Con Paradiso Lussemburgo, Filip Markiewicz (Lussemburgo, 1980) presenta il Gran Ducato come un coacervo all’interno del quale numerose nazionalità e culture si sciolgono assieme per mascherare un’identità nazionale uniformizzata. Il curatore, lo scrittore Paul Ardenne, puntualizza e svela la visione intellettuale, distaccata di un Padiglione fuori dalle righe.
Cosa sarà Paradiso Lussemburgo?
Lo si potrebbe definire un’opera d’arte totale, una genuina Gesamtkunstwerk, intendendo questo termine nel senso della grande tradizione wagneriana di creazione attraverso l’uso di tutti i possibili significati. Filip Markiewicz fornirà nientemeno che il cariotipo del Gran Ducato del Lussemburgo.
Ovvero?
La precisa identità del Lussemburgo sarà analizzata non solo attraverso riferimenti storici legati al Grand Ducato, ma anche fattori generici, inclusa l’origine della parola Lussemburgo, e dunque i propri geni. Quali dunque gli scopi di questo percorso? Presentare il viaggio verso i limiti di un’identità.
L’installazione di Markiewicz come interagirà con il pubblico?
La primigenia ispirazione dell’artista è quella di utilizzare il mondo così com’è, nella sua forma di realtà, così come è vissuto e reso esperienza dalla vita stessa di Filip Markiewicz. Il mondo così com’è significa afferrato e appreso a un livello umano da un giovane creatore proiettato, nei primi Anni Zero, nell’incertezza del fato della cultura Europea.
Attraverso la fede in scelte politiche estreme, in una riapparizione dei vecchi demoni totalitari, nella contaminazione attraverso la proliferazione di sottoculture dell’intrattenimento, nella crisi identitaria diffusa e anche, fra gli altri ambiti, in un ritorno del settarismo. Tutto questo coinvolgerà la maggior parte dei visitatori della Biennale. Filip Markiewicz non sta fissandosi l’ombelico, in senso figurato, ma indirizzerà il proprio sguardo alla civiltà corrente e alle sue conformità.
Il lavoro sarà totalmente inedito oppure proverrà da una linea precedente di ragionamento?
Il suo sarà un progetto originale totalmente concepito per il Padiglione del Lussemburgo. L’artista ha anche ideato una sorta di piano per distruggere completamente il suo lavoro una volta che sarà presentato, o forse anche prima. Io non lo impedirò. Quel che mi interessa di più, riguardo all’esperienza individuale, è il lavoro che lui ha svolto su se stesso, modalità inaspettata che il suo comporsi richiede, a sua volta, agli spettatori di esplorare loro stessi e lo spessore del mondo, come ricorda il filosofo Hans-Georg Gadamer.
Come scrittore e, a mio modo creatore, come Filip Markiewicz ho un forte senso di appartenenza per gli aspetti dell’arte più avventurosi, più dissacranti e anche effimeri. Spesso utilizzo le pagine dei mie romanzi inediti come carta igienica. Una volta che l’arte ha preso posto, niente di più diventa importante, soprattutto non l’idolatria feticistica di qualche collezione o del mercato.
Qual è la tua definizione di paradiso?
Penetriamo nello spazio del Padiglione. Un lungo striscione ci mette sull’avviso a partire dall’esterno. Che cosa troveremo scritto? “Il mondo è un palcoscenico, ma la commedia è mal assegnata”. Filip Markiewicz rende questa formula, che potrebbe provenire da un autore a metà tra William Shakespeare e Woody Allen (la citazione è di Oscar Wilde), il culmine mentale della propria presentazione: a partire da questo momento ci aspettiamo di trovare del teatro, interpretazioni e attori singoli, ma senza troppa compiacenza. Paradiso Lussemburgo forse assumerà l’aspetto lieto del Paradiso di Dante e probabilmente il suo non-so-che di status provinciale squilibrato potrebbe propiziare la memoria nostalgica di un mondo perduto in seno alla modernità, seguendo lo spirito di Cinema Paradiso di Tornatore.
Comunque sia, la realtà sarà definitamente nel Padiglione e non sarà cosparsa di rose. Non sarebbe d’aiuto confermare tutto questo attraverso l’attesa di rivelazioni disturbanti alla Luxleaks, che nell’autunno del 2014 ha rivelato un’interpretazione troppo liberale del Gran Ducato riguardante la regolamentazione di Tasse dell’Unione Europea. Il mondo è un’arena, la vita è un esercizio di sopravvivenza e quel che c’è di buono appare spesso come un albero lucente che nasconde una foresta di turpitudini. Un paradiso molto ambiguo, dunque!
Come verrà sviluppata l’idea dell’artista di identità contemporanee?
Markiewicz mette in scena un’identità che è propria del Lussemburgo. Slegata dal suo significato, ma concernente l’essenza europea all’inizio del XXI secolo: l’identità, dunque, di qualcuno che appartiene al più avanzato stato di civilizzazione del mondo moderno, dei diritti civili, delle battaglie ambientaliste, dell’impegno contro il fanatismo e di una generalizzata, penalizzante critica del sé. La sua posizione non è globale o universale. Al contrario, lui si proclama contro la marea del consenso strisciante che mantiene l’ordine secondo la costituzione di una famiglia dell’umanità, sono piuttosto le differenze della nostra civiltà a farci esistere. Io spesso pongo enfasi su questo punto.
Non siamo più in un mondo postcoloniale ideologicamente disegnato da Okwui Enwezor, ma un mondo multipolare intrecciato da tensioni multidirezionali e non Nord-Sud. L’Europa rappresenta solo una di queste polarità e il Lussemburgo, all’interno, una delle sue estremità più attive.
Quale tipologia di scenario visivo o di atmosfera culturale il progetto di Filip Markiewicz conferirà al Padiglione lussemburghese?
Ognuna delle sei stanze del palazzo diventerà soggetto di un riempimento speciale. Il termine ‘riempire’ deve qui essere compreso come una sorta di assegnazione, a ogni stanza, di un contesto specifico, proprio come fra gli spazi specializzati di un negozio, dedicati ai servizi amministrativi o ai magazzini. Il Padiglione del Gran Ducato, inoltre, non è solito supportare uno spazio espositivo, come nel caso della Biennale. Piuttosto, siamo consci del fatto che Ca’ del Duca ricrei uno spazio simbolico che sono tentato di descrivere come una matrice, in grado di generare e di rivalutare ogni realtà tipologica di qualsiasi idea.
Come entreranno in dialogo con i lavori la storia, l’estetica, la conformazione e l’architettura di Ca’ del Duca? Che cosa hai pensato la prima volta che hai compiuto un sopralluogo?
La prima visita operativa al Padiglione del Lussemburgo è stata compiuta fisicamente da Filip Markiewicz, il quale mi ha riferito come il palazzo sembrasse un cabinet of curiosities, che lo ha fatto muovere da una scoperta all’altra, impartendoci lezioni anche da una prospettiva pedagogica. Gli effetti disordinati delle cose si condensano nelle stanze dando l’impressione di uno spazio d’archivio: tutto emerge, ma all’interno di un proprio spazio, preservando la propria identità. Una concatenazione di effetti potrebbe riversarsi sulla scena, l’artista potrebbe volontariamente utilizzare l’ordine degli oggetti per produrre nuove associazioni di idee. Come un inventario sullo stile di Prèvert. In effetti, entreremo nella mente stessa dell’artista.
In che modo?
Il suo intervento prende forma come un punto di contrasto verso tutto quel che potrebbe sembrare troppo idilliaco nell’evocazione del Gran Ducato, ma anche una forma di appartenenza: perché il Lussemburgo non è l’Inferno sulla Terra. Si tratterà infatti di rappresentare la genetica della politica di Stato. Certamente questo ha qualcosa a che vedere con Venezia in sé, ma questo non sarà il tema centrale. Il lavoro potrebbe essere esposto nel Borneo o nelle Isole Curili senza modificare il proprio significato.
Il percorso di Filip Markiewicz come si riconnetterà, o come riecheggerà, le tematiche di Enwezor?
A essere assolutamente schietto, il tema generale della 56. Biennale d’Arte di Venezia appare relativamente consensuale, adattabile a tutto e predicibile. Ritengo potrebbe essere trascurato e comunque si riuscirebbe ad aderire alle relative proposte tematiche. La sua selezione degli artisti, inoltre, è dedicata particolarmente a stabilizzare valori del mercato del sistema dell’arte, persone che appartengono più al passato che al futuro.
Ma lasciamo da parte ogni barnumismo adulterato della mostra ufficiale per focalizzarci su quel che, nel caso di Paradiso Lussemburgo, diventa decisamente pregnante: il sunto artistico di un Paese, una data cultura che si rivela più complessa, rispetto a un primo sguardo sul Lussemburgo, descritto da un artista radicato nel tempo del mondo di oggi.
Potresti esprimere un desiderio e o formulare un invito per coloro che visiteranno il Padiglione del Lussemburgo?
La mia speranza, come curatore della mostra, è che gli spettatori visitino il padiglione senza alcun pregiudizio a priori. Il lavoro di Filip Markiewicz rappresenterà un’allegoria visuale, una metafora, una visione. La sua è una sorta di asserzione, una proposta, non un’espressione di verità assoluta. Non si tratta dunque di aderire quanto piuttosto di cogliere un’impressione, delle sensazioni. Questo Padiglione non dovrebbe essere visitato a tutti i costi. Dovrebbe esserne fatta esperienza, andrebbe sentito e assorbito. Ci si potrà anche ballare all’interno, così come bere birra, mentre si attendono Tutti i Mondi del Futuro. E chi potrebbe lamentarsene?
Ginevra Bria
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati