Inpratica. L’esperienza culturale di Milano (IX)
Chiudiamo oggi, a meno di una settimana da Expo, la serie di articoli dedicati a Milano e alla sua “esperienza culturale”. Sperando che nei prossimi giorni non resti soltanto la notizia del camouflage e del recupero inatteso del Padiglione Italia.
Milano oggi, la Milano di Expo. Estremamente interessante è sentire che cosa dice oggi Jacques Herzog di Herzog & De Meuron, che venne invitato nel 2009 da Stefano Boeri, insieme a William McDonough e Ricky Burdett, a disegnare il masterplan per Expo 2015: “Ho visto alcune fiere internazionali. In particolare, quella di Shanghai del 2010 mi ha chiarito che gli Expo sono diventati mostre enormi progettate semplicemente per attrarre milioni di turisti. Una gigantesca area con grandissimi padiglioni, uno più spettacolare dell’altro, a questi spazi incredibilmente grandi sono riempiti di gastronomia, negozi e bagni: che noia, e che incredibile spreco di denaro e di risorse! Decidemmo di accettare l’invito di disegnare il masterplan per Milano unicamente a condizione che il nostro cliente accettasse una visione radicalmente nuova dell’esposizione: abbandonare questi monumenti all’orgoglio nazionale, che hanno trasformato gli Expo in obsolete fiere delle vanità”. E ancora: In seguito, il masterplan “è divenuto sì la base ufficiale per Expo Milano – ma solo dal punto di vista urbanistico e formale, non come elaborazione intellettuale. […] Non eravamo più coinvolti nella realizzazione dell’esposizione. Da ciò che ho sentito riguardo ai padiglioni, sembra che questa esposizione sarà lo stesso tipo di fiera delle vanità a cui abbiamo assistito in passato”. Per poi passare ad alcune osservazioni conclusive che dovrebbero suonare di grande importanza, per noi italiani, in questo momento storico anche e soprattutto al di là della contingenza: “Non posso rimproverare nessuno o niente in particolare. Tutte le persone con cui abbiamo discusso la nostra idea erano piuttosto intelligenti e comprensive – ma legate ai loro committenti e/o elettori. Penso ancora che tutti coloro che erano coinvolti in Expo approvassero la visione critica di ciò che una Fiera Internazionale dovrebbe essere oggi… […] Ma un evento così grande e costoso è spinto da molte forze, e non sono neanche certo che la decisione finale contro il nostro concept fosse del tutto consapevole. Forse è stato piuttosto come quando un branco di pesci nuota in un’unica direzione, mentre noi cercavamo di andare in quella opposta” (Florian Heilmeyer, Putting an End to the Vanity Fair. Interview with Jacques Herzog, “Uncube”, n. 32).
E così, Milano “capitale della moda e del design” paradossalmente è oggi una città che progressivamente ha smarrito la propria identità. Davvero, se consideriamo Milano e tutto ciò che essa rappresenta alla vigilia di questa Esposizione Internazionale, non si può fare a meno di cogliere il disorientamento, l’isolamento, l’assenza sconfortante di entusiasmo che costituiscono la temperatura psichica, il mood del luogo. Persino percorrendo strade e luoghi in automobile, con i cantieri aperti e in ritardo, le deviazioni, i restringimenti – una sensazione chiara e al tempo stesso indefinibile per i residenti di popolare un luogo che aveva annunciato una sconvolgente trasformazione di sé, e si presenta invece come sempre, solo un po’ più scomodo, un po’ più precario, un po’ più sconnesso.
Milano assomiglia forse, in una maniera un po’ strana, alla rappresentazione televisiva, alla sua proiezione immaginaria in 1992, la serie tv trasmessa nelle ultime settimane da Sky Atlantic. Riconosciamo – se facciamo attenzione – la stessa aria di aspettative disattese, di promesse non mantenute, di desideri frustrati. Alla fine, la grande città si è tutto sommato costretta ad accontentarsi. Si è limitata. Si è autoreclusa nell’angusto recinto di un “fashion” forse parecchio malinteso e frainteso, di una progettazione mostruosamente semplificata e ridotta a contenitore, a look, a oggettino delizioso da piazzare in un angolino – di casa o di piazza. Nessun contatto in questo senso con i processi e con la realtà e con la società, con l’immaginazione di ciò che ci accade e con la costruzione di un futuro non decorativo.
Anche gli affannosi lavori dedicati in queste ore alle “quinte” teatrali e scenografiche, all’ormai famoso camouflage che ricoprirà le zone non terminate e i cantieri, assumono dunque l’aspetto un po’ sinistro di presagio: non è che, magari, la scenografia e il camouflage e la rappresentazione e la simulazione e la teatralità e l’ambizione frustrata e l’apparenza e il packaging e il fashion e il look e la comunicazione roboante sono, non da oggi, gli unici territori in cui realmente si manifesta e si esprime appieno l’identità collettiva dell’Italia presente?
Christian Caliandro
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