Biennale di Venezia. Il padiglione dell’America Latina raccontato da Alfons Hug
Da Rainer Krause ad Adriana Barreto, da Barbara Prézeau Stephenson a Priscilla Monge: quindici artisti latino-americani esporranno e riprodurranno all’Arsenale – siamo alla Biennale di Venezia – i loro racconti, creati per salvare gli idiomi indigeni. Il curatore Alfons Hug ne racconta il lavoro di ricerca lessicale.
Nell’edizione 2015 della Biennale di Venezia, il Padiglione dell’America Latina-IILA è – come ormai di consueto – allestito nello spazio dell’Isolotto dell’Arsenale. Qui sarà esposta una grande installazione sonora realizzata grazie al lavoro di artisti provenienti dai Paesi latinoamericani membri dell’Istituto. Gli antichi idiomi saranno riuniti in quella che può essere considerata una casa comune dell’arte, grazie alla ricerca linguistica del curatore Alfons Hug e del curatore aggiunto Alberto Saraiva. Le tracce sonore saranno testimonianza di come, anche nel campo culturale, oltre quello politico, scientifico ed economico, esista una disposizione al dialogo, all’incontro e al confronto nel rispetto reciproco e nella valorizzazione del pluralismo antropologico.
Cosa sta alla base del progetto Voces Indígenas?
Abbiamo selezionato artisti provenienti da quindici Paesi, autori che hanno una certa affinità per quel che riguarda la ricerca sull’eredità linguistica indigena. La scelta dei diciassette linguaggi si è basata non solamente sulla rilevanza storica e culturale per quanto riguarda la sintassi oppure l’appartenenza a un gruppo etnico, ma anche quanto siano sul baratro dell’estinzione ed esteticamente stimolanti.
Come si presenta l’allestimento?
La sala sarà mantenuta intenzionalmente austera e scura. I visitatori dapprima sentiranno un’onda sonora, un mormorio polifonico di tutte le voci che appariranno indistinte e indistinguibili, una tappezzeria di reminiscenze sonore provenienti da uno spazio sacro. Quando poi gli spettatori si avvicineranno alle singole casse, allora ogni singolo linguaggio sarà chiaramente udibile. I timbri dei testi individuali daranno accenni sul contenuto e sul contesto culturale di ciascun linguaggio.
Scegli una lingua e raccontaci come è andata.
Gli artisti hanno registrato i loro linguaggi, i loro idiomi in Amazzonia, sulle Ande, nella Tiera del Fuego, così come nell’America Centrale. Nel caso dell’Argentina, gli artisti hanno utilizzato un archivio di una vecchia registrazione del linguaggio Ona che è stato dichiarato ufficialmente estinto nel 1960. Solamente una donna, Cristina Calderón, nata nel 1938 a Puerto Williams, riporterà in vita la lingua Yamana, da lei ancora parlata nella Tierra del Fuego. Rainer Krause ha intervistato questa anziana signora con l’intento di preservare al massimo un vocabolario basilare.
Per ogni linguaggio che muore, non solo scompare un’eredità linguistica, ma anche uno sguardo integro, genuino del mondo e di alcuni suoi ambienti lessicali.
Il progetto è totalmente inedito?
Tutti i lavori di registrazione sono stati commissionati dal Goethe-Institute e sono inediti. Il progetto verrà esposto in alcune città dell’America Latina come Rio de Janeiro, Sao Paulo, Buenos Aires, Santiago, Quito Lima e La Paz.
In mostra ci saranno anche elementi visivi?
L’idea è quella di non esporre elementi visivi e ogni lavoro si materializzerà solo attraverso il suono. Ci saranno diciassette casse che mischieranno le lingue come se appartenessero a persone che pregano in una chiesa.
Qual è la situazione dell’eredità indigena?
La popolazione indigena dell’America Latina si avvicina ai 28 milioni di persone. E coesistono 550 linguaggi, corrispondenti al 10% degli idiomi esistenti nel mondo. All’incirca un terzo di loro è vicino all’estinzione e un altro terzo si trova in condizioni critiche. Data questa situazione drammatica, sussiste una speranza fornita da una sorta di nuovo indigenismo che viene osservato in molti Paesi del continente. Succede non solo in Bolivia, Ecuador e Venezuela, ma anche in Argentina. Il Brasile ha creato centinaia di riserve chiamate terre indigene. In Bolivia i diritti della natura sono stati incorporati nella costituzione del Paese come un’espressione, sumak kawsay, che significa vivere bene in lingua Quechua.
Qual è il legame con l’arte contemporanea?
Negli ultimi anni l’arte contemporanea si è rivolta spesso alla propria eredità storica. Sembra che le diverse letture offerte dalla contemporaneità non siano più in grado di risolvere gli opprimenti problemi del presente. È come se esistesse un patto segreto con alcuni antichi maestri, un’eco la cui potenza intercorre attraverso i secoli. Allo stesso tempo, l’arte sta costantemente incorporando metodi scientifici per collezionare, archiviare e classificare. Già Alexander von Humboldt ha posto una grande enfasi sul trattamento estetico degli oggetti di natura storica e sull’unità, sulla vicinanza tra arte e scienza. Lui usava l’espressione Naturgemälde, “dipinto di natura”, specificando l’approccio iconografico attraverso il quale gli artisti possono costruire il loro domani.
Cosa ne pensi degli spazi espositivi all’Arsenale?
È un privilegio per me lavorare all’Arsenale: la prima fabbrica europea riconvertita a spazio espositivo e anche una sede iconica a causa della sua particolare aura. Anche Dante Alighieri scrisse dell’Arsenale nella Divina Commedia!
Dal tuo punto di vista, Voces indigenas come si integrerà con il tema principale della Biennale, All the World’s Future?
Il tema è così vasto che tutti padiglioni nazionali potranno facilmente ritrovarcisi e interpretarlo.
Un augurio che accompagni il Padiglione Latino-Americano alla Biennale.
Se anche pochi visitatori inizieranno a imparare alcune lingue indigene dell’America Latina, avremo raggiunto il nostro obiettivo.
Ginevra Bria
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