Andrea, sono un bel po’ di anni che sei a stretto contatto con musicisti importanti. Come hai dato concretezza a questa passione? Perché è una passione, giusto?
Sì, esatto, è principalmente una passione. Che ha avuto sviluppi in modo abbastanza casuale, dopo tanti anni nei quali il mio problema principale quando andavo ai concerti era quello di riuscire a entrare con una macchina fotografica.
Da appassionato di musica sono sempre stato lettore di riviste specializzate, da Rockerilla al Mucchio Selvaggio fino ovviamente a Blow Up, e a un certo punto, nel 2003 se non ricordo male, contattai Stefano I. Bianchi [il direttore di Blow Up che abbiamo intervistato qui, N.d.R.] per chiedergli come poter intavolare una collaborazione fotografica con il suo giornale, potendo proporre tanta e tanta volontà ma anche un curriculum in quel momento inesorabilmente pari a zero. La sua risposta non mi lasciò molte speranze, com’era prevedibile… Salvo che poi intervenne per l’appunto il fato, che fece concatenare una serie di eventi (che non sto a raccontare per non finire col narrare un romanzo) che mi portarono a tu per tu con Mark Lanegan e Thurston Moore dei Sonic Youth nel backstage dell’Independent Day di Bologna, nel 2004. Stefano accettò di pubblicare il mio report e da allora, beh, son già passati più di dieci anni…
Durante i concerti t’immagino protetto in una specie di membrana che ti isola da alcuni fattori superflui e allo stesso tempo favorisce lo scambio d’informazioni. Le emozioni e il “sudore” dal palco passano attraverso il tuo obiettivo e arrivano percepibili nelle tue fotografie. Mentre sei lì come ti rapporti con chi si esibisce, ma anche col pubblico? Un legame particolare, una sorta di connessione spirituale o intellettiva, avvicina il fotografo a chi si esibisce diversamente dagli spettatori “normali”?
Innanzitutto dipende dalla tipologia del concerto. Se si tratta di un festival di grandi dimensioni, è tutto molto più ampio e dispersivo ed è davvero difficile trovare la giusta empatia col musicista o la band di turno. Principalmente perché quasi sempre siamo in tanti sotto al palco a scattare foto e, pur con un certo doveroso fair play nei confronti dei colleghi, è indispensabile trovare la posizione adeguata per portare a casa un buon lavoro e per questo, spesso, ci si affida alla fortuna.
In questi casi il pubblico retrostante ti vede un po’ come un privilegiato a poter stare lì, a ridosso dei musicisti, con libertà di movimento mentre loro sono spalmati alle transenne qualche metro più indietro e magari da ore e ore, sfiniti e disidratati. Detto questo, le condizioni fotografiche sono comunque quasi sempre accettabili anche se poi, inevitabilmente, le foto sono un po’ tutte uguali.
E in contesti più “raccolti”?
Io preferisco il concerto nel piccolo o medio club… O in teatro, dove generalmente c’è più libertà di movimento e soprattutto ci possono essere più facilmente le condizioni per entrare in quella che tu definisci connessione spirituale mentre io, come dicevo prima, chiamo empatia con chi sta suonando. Intendiamo probabilmente la stessa cosa e cioè quella capacità di isolarsi completamente dal contesto e concentrarsi su chi sta suonando per arrivare persino a prevedere, in qualche caso fortunato, movimenti o gesti fotograficamente esaltanti.
La fortuna in questo caso sta nell’essere pronti con la macchina fotografica a catturare quei momenti, la qual cosa non è cosi scontata nel mio caso perché, a differenza della maggior parte dei colleghi che hanno compiti solo fotografici, per cui una volta esauritosi il loro lavoro (perché è scaduto il tempo oppure perché comunque la maggior parte delle riviste e agenzie non necessità di un gran numero di foto) o se ne vanno oppure seguono con poca attenzione, a me piace seguire l’intero concerto (per poi scriverne anche il report) e talvolta capita di essere talmente assorbiti da scordarsi persino di avere la macchina fotografica attaccata al collo…
Immagino che avrai assistito a episodi strani o a musicisti in preda ad atteggiamenti inconsueti. Ne avrai da raccontare. Soprattutto cosa t’interessa cogliere in quei momenti?
In realtà poi nemmeno tanto. Cioè, i musicisti sono personaggi estrosi per loro natura ma, al di la dell’essere più o meno conosciuti, vanno al bagno e fanno le cose come ogni essere umano e anche se lo facessero camminando a testa in giù non mi interesserebbe più del giusto. Sul palco più che l’inconsueto cerco di cogliere il momento in cui il musicista è se stesso al cento per cento, anche quando sta dissimulando un inconveniente tecnico piuttosto che il non essere particolarmente in forma.
Qualche volta non ci faccio nemmeno caso sul momento e me ne accorgo rivedendo le foto in studio, come l’occhio pesto di Isaac Brock dei Modest Mouse in un concerto bolognese di un po’ di anni fa. Lì per lì non mi ero accorto di nulla e, non saprei dire se e quanto questo dettaglio possa considerarsi grave…
Qualcuno si è rifiutato di farsi ritrarre durante i concerti o ti ha posto limiti serrati?
Ci sono state situazioni particolari in effetti: il cantante dei Tool, Maynard James Keenan ad esempio, per non farsi fotografare da vicino (o così ci era stato detto) se ne stava per tutto il tempo concesso ai fotografi nelle retrovie del palco, spesso anche in controluce o in situazioni nelle quali poteva essere ripreso quasi solo come silhouette. Oppure i Godspeed You Black Emperor, che solo all’ultimo tramite l’ufficio stampa hanno comunicato che a nessun fotografo era concesso entrare nel pit per fare foto e questi avrebbero eventualmente potuto arrangiarsi stando tra il pubblico.
Ci sono state altre situazioni più o meno simili – Nick Cave a Bologna, due anni fa, ha concesso solo il tempo di una canzone ad esempio – ma tutto sommato sono situazioni abbastanza rare e per le quali non so davvero darmi una spiegazione e, con molta onestà, ti dico che nemmeno di questo mi interessa granchè.
Di qualche artista in particolare custodisci ricordi speciali?
Certo che sì, anche se si tratta di artisti che oggi purtroppo non ci sono più. Karlheinz Stockhausen, ad esempio. Del suo essere stato candidamente alieno tra gli esseri umani, come lui stesso amava definirsi. Mi porterò dentro per sempre anche lo sguardo severo di Lou Reed verso la mia macchina fotografica, una volta entrato di soppiatto nel palco adibito a regia del Teatro Valli di Reggio Emilia mentre la responsabile dell’ufficio stampa mi impartiva le disposizioni fotografiche per il suo concerto insieme alla moglie Laurie Anderson, non molto tempo fa.
E poi l’essere stato a tu per tu per qualche decina di minuti e l’aver scambiato qualche parola con Joey, Johnny e Dee Dee Ramone, i miei miti di e per sempre. Ma questo fu dopo un loro concerto a Modena nel 1989 e come ho già detto quello era ancora il periodo in cui il mio problema principale era riuscire ad entrare ai concerti con la macchina fotografica nascosta da qualche parte.
In questa mostra, oltre a molti scatti esponi una parte della tua collezione di scalette originali raccolte lungo le tue tappe fotografiche, come quella dei Faust…
Quando posso cerco di prendere la scaletta del concerto a cui vado, per tanti motivi. Se si tratta di una band a cui sono particolarmente legato è per questioni affettive, come nel caso dei Loop, che si sono riformati per qualche concerto lo scorso anno e non me li sono fatti scappare in quel di Bologna.
Diversamente comunque è anche perché la scaletta, specialmente se scritta di proprio pugno dai musicisti su fogli di carta di fortuna o anche su un pezzo di cartone per la pizza (come appunto quella dei Faust nel concerto al Calamita di Cavriago, diversi anni fa), è in se un pezzo importante del concerto stesso, che aiuta a focalizzare un dato periodo della band anche e forse più di una bella foto, credo.
Movin’ On Up! apre i festeggiamenti dei vent’anni di Blow Up. Oltre a essere un’ottima occasione per comprendere il tuo percorso e conoscere da vicino nomi del calibro di Thurston Moore, Karlheinz Stockhausen, Blixa Bargeld, Billy Idol, la mostra restringe lo sguardo anche sul legame con il magazine. Che cosa rappresenta per te Blow Up?
Per quanto mi riguarda, in assoluto Blow Up per me è Stefano I. Bianchi, il fondatore, direttore e, credo poterlo dire, un amico. Una persona cui devo tanto e non solo per avermi dato la possibilità di proseguire con questa mia passione fotografica con un minimo di senso compiuto ma anche, cosa molto più importante, l’essermi stato vicino in un momento particolarmente difficile della mia vita.
Questa stessa mostra è stata fortemente voluta da lui in un momento particolare in cui, ragionevolmente, pur essendo un po’ di tempo che ci pensavo insieme ad altre persone che mi sollecitavano a farla, non avevo di mio la minima possibilità di poterla realizzare. Non potrò mai ringraziarlo abbastanza per la fiducia, la stima, la comprensione, la disponibilità (ma anche i cazzeggi e tutto il resto) che mi ha messo a disposizione partendo praticamente da zero e che cerco di ricambiare ogni qual volta ci si confronta per questioni legate al giornale ma non solo… sono molto felice e orgoglioso che questa tre giorni di festeggiamenti per Blow Up si tenga proprio a Reggio Emilia, così come sono molto orgoglioso di far parte di una squadra che comprende giornalisti dello spessore di quelli di Blow Up.
Domenico Russo
Reggio Emilia // fino al 10 settembre 2015
inaugurazione 3 luglio 2015
Andrea Amadasi – Movin On Up!
CAMERA BIANCA EXPOROOM
[email protected]
www.blowupmagazine.com
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