Inchiesta Art Brut. Intervista con Sarah Lombardi
L’ultima tappa di questa inchiesta ci riporta alle origini. Nata nel 1976 dal lascito di Jean Dubuffet, quella di Losanna è la collezione di Art Brut per antonomasia, nonché la più grande al mondo. Nei suoi primi (quasi) quarant’anni di attività, ha raccolto e protetto il lavoro di circa un migliaio di artisti, per un totale di oltre 60mila opere. Oggi la direzione è affidata alla giovane e dinamica Sarah Lombardi, che abbiamo raggiunto al telefono per parlare della Collection, dei suoi creatori e progetti.
Qual è stato il tuo primo contatto con l’Art Brut?
È avvenuto attraverso Michel Thévoz, che allora era il direttore della Collection ma insegnava anche Storia dell’Arte all’Università di Losanna. È stato mio docente e ho scoperto le prime nozioni di Art Brut proprio grazie a lui, anche se l’Art Brut non era il tema principale del corso. Anche adesso, se ci pensi, l’Art Brut non rientra nei programmi di storia dell’arte. Nei corsi di Thévoz, in ogni caso, di tanto in tanto si faceva riferimento all’Art Brut, piccoli cenni, che però mi hanno incuriosita molto.
Prima di tutto questo, quando ero molto piccola – avrò avuto sette anni – visitai la Collection, e di quella giornata mi è rimasto il ricordo di un unico artista, il francese Michel Nedjar con le sue creazioni di stoffa, che assomigliano a pupazzi dalle forme irregolari, sono molto strani. Mi fecero molta paura, ma al tempo stesso mi rimasero impressi, tanto che ricordo quell’episodio alla perfezione ancora oggi.
Quando hai iniziato a lavorare nel campo dell’Art Brut?
Dopo la laurea in Storia dell’Arte all’Università di Losanna sono stata tre anni a Montréal. Anche se non stavo cercando un impiego nell’ambito specifico dell’Art Brut, ho iniziato a lavorare in un atelier protetto con laboratori e workshop per persone con disabilità (simile al Creative Growth Art Center, per intenderci). Si trattava quindi di curare delle mostre con i lavori provenienti dai workshop, un lavoro molto diverso da quello che faccio qui adesso, però fondamentale: stavo insieme alle persone che dipingevano e disegnavano tutti i giorni, li vedevo lavorare, avevamo un contatto diretto. Un’esperienza molto profonda e arricchente, che poi non ho più avuto.
Certo, quando acquisiamo i lavori di un artista vivente, vado sempre a trovarlo, a vedere l’ambiente in cui lavora, ma non c’è più il contatto quotidiano, che ovviamente è molto diverso. Dopodiché ho avuto l’opportunità di fare uno stage all’interno della Collection. Ma direi che quella canadese è stata un’importante esperienza complementare.
Stai dicendo che non è importante soltanto l’opera, ma anche chi la produce?
Senz’altro. In questo processo di riconoscimento e diffusione dell’Art Brut, che oggi è anche una moda, si parla tantissimo delle opere ma spesso ci si dimentica la questione principale, e cioè l’artista. Parliamo dei lavori, di quanto siano incredibilmente forti, del loro impatto estetico, della terminologia, eppure tante domande essenziali rimangono molto spesso in secondo piano. Parliamo poco degli artisti: chi sono, che cosa fanno, da dove vengono…
… dove vivono e come si guadagnano da vivere…
Esatto. Adesso vediamo l’Art Brut dappertutto, nelle gallerie e nelle fiere, da Christie’s e Sotheby’s, e loro? Chi questi lavori li ha prodotti? Ne ricavano qualcosa? Questa è una domanda molto importante, è davvero una questione primaria, quando parliamo di Art Brut e di tutta l’attività commerciale che ora le ruota intorno. Dobbiamo infatti ricordare che la maggior parte delle opere sono fatte da artisti che non hanno nessun mezzo per capire, proteggere e difendere i propri interessi: non sono “attrezzati” per questo.
Già Dubuffet si trovò a dover affrontare la questione. Lui pensava che siccome le opere non erano state create a scopo di vendita, non dovevano essere immesse nel mercato. Gli artisti, dal canto loro, attribuivano al lavoro un valore del tutto diverso da quello commerciale. Anch’io penso che si debba stare molto attenti a mettere insieme due cose non sono nate per stare insieme. Con l’arte contemporanea è diverso: sappiamo che c’è un mercato, gli artisti creano per vendere e vogliono vendere, vogliono avere riconoscimento. Ma per l’Art Brut il discorso è diverso: è molto più complesso.
Un’altra questione complessa è il nome. Immagino che, dovendo scegliere tra Outsider Art e Art Brut…
Beh, sì, a me viene da dire che il termine migliore è Art Brut, il primo, quello inventato da Jean Dubuffet. Poi abbiamo Outsider Art, che è diventata la traduzione più diffusa, ma sappiamo che si riferisce a un ambito molto più ampio perché include anche gli autodidatti, le persone che si trovano ai margini del sistema o che si pongono consapevolmente contro il sistema. Essendo un termine più ampio, porta anche un po’ di confusione…
Sì, credo che Art Brut sia il termine più chiaro, ed è anche facile da pronunciare in ogni lingua. Del resto, Dubuffet non aveva posto nessun copyright sull’uso della parola. Con le traduzioni, invece, non sappiamo mai esattamente di che cosa stiamo parlando. Ma è chiaro che ora è difficile tornare indietro.
Ci parli del tuo lavoro di direttrice della Collection? Sei la terza, dopo Michel Thévoz e Lucienne Peiry.
Nel 2012 sono stata direttrice ad interim, per un anno, e nel marzo 2013 sono stata investita del ruolo ufficiale. Da quando ho cominciato, il primo punto che mi è sembrato importante sviluppare, l’obiettivo principale, è valorizzare la collezione esistente, che attualmente conta oltre 60mila opere. La Collection è il punto di riferimento mondiale per l’Art Brut, sia perché è nata dal lascito originario di Jean Dubuffet, sia perché è la più grande del mondo. Quindi lo scopo principale è valorizzare questo immenso patrimonio.
Come si traduce in pratica questo intento?
Vogliamo realizzare, a cadenza regolare, una serie di mostre monografiche. Per esempio, nel 2012 ne abbiamo dedicata una ad Aloïse, mentre in primavera ne abbiamo fatta una di André Robillard. Si tratta di artisti importanti, storicizzati, dei quali abbiamo moltissimi lavori perché Dubuffet li collezionava (di Aloïse ci sono oltre 140 opere, di Robillard 170), quindi possiamo creare dei focus molto approfonditi sui singoli artisti.
Un altro modo con cui intendiamo valorizzare la collezione esistente è attraverso la Biennale de l’Art Brut, che si basa invece su un tema. La prima Biennale de l’Art Brut è stata nel novembre 2013. Il tema erano i mezzi di trasporto (automobili, treni, barche), che ci ha consentito di esibire circa 42 artisti della collezione per un totale di oltre 250 opere. La seconda edizione della Biennale sarà a novembre di quest’anno e sarà dedicata al tema dell’architettura (città immaginarie, case ecc.), che è un filo conduttore piuttosto ricorrente nelle opere Art Brut. In occasione della Biennale viene anche realizzato un catalogo bilingue, inglese e francese, edito da 5 Continents, una casa editrice con sede a Milano. Il catalogo servirà a far vedere le opere anche a chi non avrà avuto la possibilità di visitare la mostra di persona, ed è importante per lasciare una traccia.
Insisto molto su questo punto, sull’intenzione di valorizzare ciò che già c’è, perché abbiamo delle opere che non sono mai state esposte.
E per quanto riguarda artisti viventi e nuove acquisizioni?
È naturalmente indispensabile continuare a vivere nel presente: non vogliamo guardare soltanto al passato, ma anche osservare e dare spazio a chi lavora oggi, perché anche questo fa parte della missione del museo. Per esempio, di recente abbiamo curato due mostre di due artisti che vivono in Belgio: Eric Derkenne, nato nel 1960, e Pascal Tassini, nato nel 1965.
Per quanto riguarda le nuove acquisizioni, ci piacerebbe completare dei cicli di opere e delle serie di uno stesso autore, e qui torniamo al discorso di prima: valorizzare il grande patrimonio ereditato. Di tanto in tanto, poi, acquisiamo lavori nuovi, ma questa non è certamente la priorità. Dobbiamo essere molto selettivi. Purtroppo non possiamo concederci la stessa libertà che avevano Dubuffet o Michel Thévoz: ci sono problemi di spazio, conservazione, deposito.
La Collection è anche molto attiva nelle collaborazioni internazionali: in questo senso guarderete anche all’Italia?
Le collaborazioni sono molto importanti perché ci consentono di presentare le opere al di fuori del museo e renderle note anche all’estero. Collaboriamo innanzitutto con altre collezioni, musei e istituzioni dedicate all’Art Brut (per esempio, abbiamo appena imprestato 161 lavori di Aloïse per una mostra al LaM di Villeneuve D’Ascq, in Francia), ma siamo anche molto aperti a dialogare con musei che non sono specializzati in questo campo (un bell’esempio è stata la mostra dedicata a Morton Bartlett, realizzata nel 2012-13 presso l’Hamburger Bahnhof di Berlino).
E per il prossimo anno, sempre nell’ambito degli spostamenti oltre confine, è prevista una collaborazione proprio in Italia, con il professor Giorgio Bedoni dell’Accademia di Belle Arti di Brera.
Sara Boggio
www.artbrut.ch/fr/21070/collection-art-brut-lausanne
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