Ai Weiwei l’ho conosciuto prima che fosse Ai Weiwei. Anzi, Ai Weiwei era già Ai Weiwei cioè un arrampicatore stratega furbissimo che pur di diventare famoso avrebbe fatto di tutto. Credo fosse attorno al 2005, quando visitai Pechino per cercare personaggi da inserire nella mia mostra di artisti giapponesi, coreani e cinesi “Allooksame”. Ai Weiwei non era nella mia lista, anzi qualche curatore locale mi aveva pure detto di evitarlo. Non so come finii nel suo studio, che a quel tempo era vicino a un centro d’arte abbastanza importante. Lo studio era anche la sua casa. Lui era più conosciuto come architetto che come artista e la carriera di “vittima” del regime era ancora di là da venire. L’edificio era elegante e austero: cemento grigio e legno scuro. Lui non era certo, come si dice a Firenze, una “sagoma”. Il sorriso sulla sua faccia dovevano ancora inventarlo. Lo studio sembrava il deposito di un antiquario, con tutte le sue sculture fatte con sedie e tavoli cinesi antichi. Non erano nemmeno malissimo, ma gli mancava qualcosa, tanto che durante la visita non scattò mai quella scintilla che solitamente mi scatta quando sto per organizzare una mostra. C’è nel suo lavoro un’artificialità che a volte produce anche cose dignitose, ma spesso è solo uno strumento di autopropaganda.
Non potevo certo immaginare cosa sarebbe diventato il nostro Ai. La sua vera opera d’arte è stata trasformarsi in uno pseudo dissidente, di quelli che piacciono tanto a noi occidentali perché costa poco difenderli e magari uno ci tira su anche qualche euro. Ho incontrato Ai di nuovo a Gwangju in Corea del Sud. Gli feci un’intervista per Il Riformista, il quotidiano per il quale collaboravo allora. L’impressione non cambiò, la conversazione al tavolo di un albergo non produsse nulla d’interessante. Per cosa Ai Weiwei protestasse non mi fu del tutto chiaro, e non mi è chiaro nemmeno ora. Libertà di parola? Sì, ma in modo molto vago. Certamente, quando poi lo hanno sbattuto in galera la radiografia del suo cranio incrinato per una manganellata ha fatto il giro del mondo. Tuttavia a me rimane la tentazione di esclamare “Dov’è il problema?!”.
Ai Weiwei è un po’ come Bocelli. Parlarne male è un crimine a priori. Prima o poi vedremo anche lui a Che tempo che fa di Fazio. Ma a me il suo dissidio continuerà a dare fastidio. Parafrasando il titolo di un film degli anni settanta, Non si uccidono così anche i cavalli?, direi che non si prendono così per il sedere i pappagalli. I pappagalli in questo caso sono tutti coloro che senza sapere bene cosa dicono si limitano a ripetere ciò che il povero Weiwei decide di far credere loro.
Francesco Bonami
Francesco Bonami – Il Bonami dell’arte. Incontri ravvicinati della giungla contemporanea
Electa, Milano 2015
Pagg. 125, € 12,90
ISBN 9788837099053
www.electaweb.com
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