Un passo indietro e due avanti
Domani alle ore 18, allo IULM di Milano, insieme all’ultimo libro di Angela Vettese verrà presentato “Italia Reloaded”. Scritto da Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco, il volume appena edito da Il Mulino fa il punto sulla cultura in Italia. Con uno sguardo alla storia, quella contemporanea però. E un profluvio di dati. Per capire come si può produrre e fruire della cultura in maniera “pro-attiva”. “Artribune” ve ne propone due estratti.
Molto spesso la produzione culturale italiana, invece di indagare criticamente le ragioni di un fallimento e di un declino, coadiuva attivamente la politica, la storia ufficiale e l’identità (l’inconscio?) nazionale nella grande opera di rimozione storica. È il caso, per esempio, di quello che è stato efficacemente definito il “decennio lungo del secolo breve”: gli anni Settanta.
In effetti, compressi come sono tra l’onda lunga del Sessantotto e della strage di Piazza Fontana nel termine iniziale, e il riflusso in quello finale, essi sono perennemente stretti nel nostro Paese tra un’identità culturale molto forte e una rappresentazione storica incerta, rabberciata, iper-semplificata. Anche a livello terminologico, gli anni Settanta sono identificati pienamente ed irrevocabilmente, ancora oggi, unicamente come gli “anni di piombo”. Altrove, sono per esempio associati con il periodo in cui l’intelligenza, la sperimentazione e il pensiero divergente erano valori condivisi (e apprezzati) a livello sociale e collettivo. Qui, no: perché? Perché in Italia ogni forma, anche creativa, di dissenso legata a quel periodo è stata messa da parte, esclusa, soppressa, e frettolosamente connessa con la violenza politica, tanto strettamente da essere identificata con essa (o quantomeno con il suo presupposto e corollario)? […]
In questo senso, proprio la fase del riflusso a cavallo tra anni Settanta e anni Ottanta è importante per il nostro discorso, perché rappresenta probabilmente il primo caso in assoluto di rimozione “in presa diretta”: il seppellimento preventivo di un passato recentissimo che sconfina nel presente. Si tratta infatti del momento in cui un’intera nazione decide che ne ha abbastanza e sceglie di lasciarsi alle spalle un periodo violento e tragicamente incomprensibile. Sceglie di dimenticare. Così, la famosa lettera Morire d’amore (autentica? falsa? tutto sommato, non ha importanza…), che viene pubblicata sulla prima pagina del “Corriere della Sera” il 13 settembre 1978 segnando l’inizio ufficiale del ripiegamento collettivo nel privato, segue di appena quattro mesi il ritrovamento del cadavere di Moro.
Il Riflusso, dunque, è la Rimozione: coincide esattamente con essa, le si sovrappone (non a caso, il termine è squisitamente italiano e non ha equivalenti precisi negli altri Paesi, anche se fenomeni analoghi riguardano ed investono, in varia misura e in forme diverse, tutto il mondo occidentale negli stessi anni). La riscoperta degli affetti e delle emozioni ha quindi come effetto diretto – e spinta propulsiva – la cancellazione a lungo termine di ciò che è avvenuto, e soprattutto delle sue cause profonde.
Una seconda conseguenza di questo processo è che l’Italia, dal punto di vista culturale, sembra saltare a piè pari la transizione vera e propria tra anni Settanta e Ottanta – un periodo fecondissimo e ‘fondante’ che porta in dote in Inghilterra, ad esempio, tutto il punk, il post-punk e la new wave, e negli Stati Uniti l’inaugurazione vera e propria dell’arte postmoderna – per piombare direttamente nel nuovo decennio, con tutte le semplificazioni del caso. Nell’Italia del 1978, tra le P38 da una parte e Tony Manero dall’altra, in mezzo non c’è – apparentemente – niente a livello di produzione culturale, niente almeno che oltrepassi il livello dell’imitazione, e quello della regressione. Niente di quello che altrove genererà prima le sottoculture contemporanee, e poi l’intera cultura popolare come la conosciamo oggi. La verità è che le condizioni e gli spunti per una produzione sottoculturale solida e corposa esistono, ma invece di essere lasciati fiorire vengono soffocati anzitempo.
Il riflusso si caratterizza, perciò, come un autentico clash culturale, la fine brusca ed ingloriosa di un mondo (“come una distrutta famiglia”) e il presentimento di un’entità misteriosa e potente che si avvicina, di un nuovo spirito rappresentato dalla palla d’acciaio che sfonda la parete dell’auditorium-Italia in Prova d’orchestra (1979) di Fellini. Così, gli intellettuali e gli artisti italiani alla fine degli anni Settanta possono riconoscersi nelle parole del bizzoso direttore, che registrano una condizione reale e collettiva: “Che allora vuoi sapere da me? Se la musica è una parte di mondo? Io vorrei chiedere a voi: ma la musica esiste? No? Allora mondo non esiste più. Solo le abitudini sono restate. […] Quando io dirigo mi sento ridicolo. Come morto. Mi sento un fantasma”.
Christian Caliandro
“La cultura è il petrolio dell’Italia”: si tratta di un’affermazione veramente sorprendente, come appare chiaro a chiunque provi ad interrogarsi realmente sul suo significato. Il petrolio è il prodotto di una attività estrattiva relativa ad un bene non riproducibile (almeno nei tempi di un realistico ciclo di attività umana, per quanto multi-generazionale), che configura una classica situazione di rendita: tutto ciò che occorre per godere dei benefici economici di una simile attività è detenere la proprietà del giacimento petrolifero. Al limite, per godere di tali benefici non è nemmeno necessario sostenerne i costi di estrazione, per non parlare di quelli di raffinazione o di distribuzione: basta cedere appunto i diritti di estrazione a chi possiede i capitali per dare corso all’attività, scaricando quindi su altri tutti gli oneri di organizzazione e gestione della conseguente filiera produttiva.
Si tratta in altre parole di un flusso di reddito che risulta garantito a prescindere da qualunque merito, competenza o abilità del possessore che non sia la capacità di contrattazione con le controparti. È proprio questo carattere ‘magico’ ad esercitare il suo fascino irresistibile negli esercizi di retorica da convegno: se la cultura è come il petrolio, ovvero se genera flussi di reddito in modo del tutto indipendente dalla competenza e dall’abilità di chi ne detiene la proprietà, e se l’Italia è dotata di tale risorsa in misura esorbitante, allora possiamo fare a meno di preoccuparci della decadenza economica della nazione, perché la soluzione di tutti i nostri problemi è lì, a portata di mano, e aspetta soltanto di essere colta. La cultura come il petrolio: nessuna metafora potrebbe essere più adatta per rappresentare la povertà mentale di questi anni. Il petrolio è un bene strumentale, che non ha valore in sé ma solo per produrre altri beni. Il petrolio crea ricchezza, un’economia da nababbi fatta di poco lavoro e tanti lussi e divertimenti. Più che la descrizione di una moderna economia di mercato, sembra la descrizione del paese dei balocchi di Collodi. E non ci si può quindi meravigliare se continuando a credere alle favole ci si trasforma, letteralmente, in asini.
La cultura, in realtà, non potrebbe essere, dal punto di vista economico, più diversa dal petrolio. Richiede investimenti consistenti e rischiosi, ha un enorme valore intrinseco, e produce economie soltanto se è inserita in un contesto sociale caratterizzato da alti livelli di sviluppo umano e da una elevata propensione alla partecipazione dell’intera società civile. La cultura ha un bisogno vitale di infrastrutture intangibili: la dimensione dello spazio mentale delle persone, la loro capacità di accedere e di dare valore a contesti di esperienza ricchi e complessi. La cultura ha bisogno di una società che pensa e che ama pensare.
Nulla di più lontano, dunque, dall’Italia di questi anni. I beni culturali non producono quindi valore economico se non si creano le condizioni opportune per la loro fruibilità. È vero che l’Italia è piena di castelli, chiese, palazzi storici, ma è altrettanto vero che molti di essi per essere resi visitabili avrebbero bisogno di ingenti investimenti finalizzati al restauro, all’agibilità, alla musealizzazione. E anche qualora questi investimenti venissero intrapresi, sarebbe tutt’altro che garantito che essi sarebbero in grado di generare profitto in tempi e con modalità d’uso del bene ragionevoli e sostenibili. A differenza del petrolio, che è caratterizzato da una profittabilità pressoché certa ed entro certi limiti persino pianificabile, la valorizzazione economica di un bene culturale presuppone un grado molto elevato di rischio imprenditoriale e non è realisticamente in grado di prefigurare, nella maggior parte dei casi, non soltanto prospettive di profitto, ma anche persino di pareggio economico, sempre che la destinazione d’uso continui a rispondere a finalità di natura culturale.
Inoltre, mentre nel caso del petrolio la profittabilità non dipende dalle abilità del proprietario, nel caso della cultura le abilità e le competenze giocano un ruolo cruciale: non si può valorizzare ciò che non si conosce e quindi non si comprende, non nel modo appropriato, perlomeno. Diversamente dal petrolio, la cultura presuppone che chi opera con essa ne condivida in primo luogo le premesse di senso, che ne sia il primo entusiastico e competente fruitore. In assenza di questa precondizione, si producono effetti, e risultati economici, aberranti. L’equazione cultura=petrolio può essere utile a galvanizzare l’audience di un convegno, a suggerire il miraggio di magnifiche quanto ipotetiche sorti progressive che tornano sempre utili alla creazione e alla gestione di un consenso settoriale ed impulsivo, ma quando diviene un principio ispiratore delle politiche culturali non può non destare una ragionevole preoccupazione. Perché la cultura è fondamentale per lo sviluppo locale di economie post-industriali come la nostra, ma per motivi e con modalità che non hanno nulla a che fare, né in via di principio né di fatto, con il facile miracolismo da convegno.
Pier Luigi Sacco
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