Carnet d’architecture. Valerio Paolo Mosco
Sono frasi intime, umane, addirittura “troppo umane”, quelle che Corrado Sassi appone sulle facciate moderniste. E così le fa parlare, le rende meno granitiche. In una rivolta che ha come obiettivo soprattutto il postmoderno. Ecco la lettura che ne fornisce Valerio Paolo Mosco.
CORRADO SASSI: NON È DISSACRAZIONE
Lo abbiamo provato tutti: non far parte, non appartenere. Non solo, non volere neanche far parte, non volere neanche appartenere. E poi noi tutti conosciamo quel galleggiare che viene dopo quel non appartenere. Un disagio che ci sospende in una pena che non si sa a chi dedicare. Per guarire da ciò il disagio deve prendere forma, allora il non appartenere si trasfigura in qualcos’altro.
È ciò che fa Corrado Sassi: trasfigura il non appartenere e lo fa utilizzando l’architettura. Quell’architettura modernista, con le sue facciate asettiche e intonse sulle quali appone frasi tipo: “Sono un’anima in pena”, “Perché mi do la pena di esistere” o la magnifica “Ha smesso di soffrire”. Frasi comuni e personali al tempo stesso, che Sassi ricama in maniera naïf sulle sue foto.
Potrebbe sembrare un ennesimo mettere i baffi alla Gioconda, un’ennesima dissacrazione. Non lo è. Sarebbe troppo facile, sarebbe un gesto retorico e didascalico: sarebbe ancora una volta una grossolana mossa modernista. Niente dissacrazione quindi, ma un arricchire ciò che è inanimato e freddo con l’imperfetto, il fragile, in definitiva con l’umano. Trasfigurata, con una semplice frase, la glaciale facciata modernista allora smette di far finta di essere la propaganda prestazionale di se stessa, e allora è come se scoprisse l’intimo senso dell’essere moderni, che è poi quello di essere anime in pena.
RENDERE UMANA L’ARCHITETTURA
Un tempo, alla fine del Settecento, gli architetti rivoluzionari francesi parlavano di architettura parlante. Sono stati i primi a eliminare del tutto gli ordini e la decorazione. Il risultato è stato allora un’architettura di nudi volumi geometrici assoluti resi “parlanti” da degli innesti, spesso delle statue o dei portali monumentali.
Far parlare l’architettura è stato dunque il primo dei sogni dell’architettura moderna. Corrado Sassi vuol far parlare le architetture. Attenzione: parlare, non urlare. Niente slogan quindi, niente denunce pulciose e petulanti, niente moralismi alla carta. Nulla di tutto ciò. Solo un parlare per esprimere un’intimità che, quasi per pudore, si nasconde dietro delle frasi comuni. Frasi anonime, velatamente sibilline.
Simone Weil, che di umanità ne capiva, che ha saputo immergersi nella condizione umana, scriveva che la bellezza per essere tale deve essere anonima e intima al tempo stesso; che, “benché in modo assai confuso, e commista a molte false imitazioni, la bellezza è percettibile all’interno della cella che ogni pensiero umano si trova all’inizio prigioniero”. Sta qui la condizione umana, nella cella che ognuno di noi si porta dietro: una cella che si deve aprire, nei modi che ci uniscono agli altri, eliminando tutto ciò che è banalmente personale. “Sono un’anima in pena” e “Mi do la pena di esistere” è Sassi e tutti noi, è la testimonianza di un condividere che ha il sapore di una rivolta.
UNA RIVOLTA INTIMA
Soffermiamoci sul termine ‘rivolta’ e accostiamo ad esso un aggettivo che nella percezione comune apparirebbe poco congruente: ‘intima’. Un’intima rivolta quindi: una locuzione, questa, che ha qualcosa di sapienziale. Possiamo scomodare il cristianesimo, ma anche Schopenhauer e Krishnamurti e persino Cartesio, il padre della modernità, dell’io che corrisponde all’essere, per il quale la vera rivoluzione nasce dentro noi stessi, nell’intimo di quella cella di cui parlava la Weil.
Potremmo continuare, ma l’intima rivolta di Sassi va oltre ciò, o meglio si indirizza verso qualcosa di ben preciso, verso il postmoderno. Siamo oggi agli sgoccioli di questo paradigma che da anni ci ha accompagnato. Un paradigma basato essenzialmente sulla frase di Nietzsche secondo la quale non esistono verità, ma solo interpretazioni. Per cui un paradigma di relativismo assoluto, seguendo il quale si sarebbe potuto dare vita a un’esistenza priva di gravità etica, edonista e spregiudicata, brillante e superficiale al tempo stesso. In altri termini, a un’esistenza priva di dolore. Una follia che ci consegna oggi un conformismo asfissiante e con esso l’altra faccia dell’edonismo: la pesantezza della superficialità.
OLTRE IL POSTMODERNO
Nelle epigrafi che Sassi mette a quelle asettiche facciate vedo allora la forza e l’orgoglio di chi ha resistito alla follia postmoderna, di chi non ha ceduto alla riduzione del mondo a un disperato, aggressivo e prestazionale parco a tema. Una resistenza che Sassi (sta qui il suo essere un artista significante, che da senso a ciò che tocca) riesce a confezionare con una qualità che da troppo tempo è diventata un disvalore. Una qualità che rimpiangiamo ma che, per asservimento al relativismo intellettualoide postmoderno, è diventata persino un tabù: la grazia. Ed è proprio con la grazia che il personale si trasfigura in collettivo acquistando il sapore ineffabile dell’intimità.
Far parlare quindi le facciate asettiche moderniste, renderle parlanti in maniera tale da restituirci il nostro essere in pena, per cui il nostro essere figli dei nostri tempi. Una trasfigurazione questa provata in passato molte volte, pochissime volte con grazia.
Valerio Paolo Mosco
“Carnet d’architecture” è una rubrica a cura di Emilia Giorgi
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