Inpratica. Una sopravvivenza (VII)
“Povertà è assaporare un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare”. Così scriveva Goffredo Parise nel 1974. Mentre oggi un ragazzo di Taranto dice: “Quando sarò morto, sarà come non aver vissuto”. Si avvia alla conclusione il saggio a puntate di Christian Caliandro.
She was a self that knew, an inner thing,
subtler than look’s declaiming, although she moved
with a sad splendor, beyond artifice,
impassioned by the knowledge that she had,
there on the edge of oblivion.
Wallace Stevens
“Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è ‘comunismo’, come credono i miei rozzi obiettori di destra. Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime ‘barche’. Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente… (…) Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita” (Goffredo Parise, Il rimedio è la povertà, “Corriere della Sera”, 30 giugno 1974, pubbl. in Dobbiamo disobbedire, Adelphi 2013, pp. 18-19).
Una sopravvivenza, nell’anno degli isterismi e dei razzismi. Nell’anno dell’intolleranza e della regressione. Della stupidità. Chi sono i dinosauri, da cui stare alla larga mentre cadono? Gli intolleranti; i retrogradi; i maleducati; gli ignoranti; coloro che non accettano di vivere il mutamento nella propria esistenza, e che – se è per questo – non accettano neanche di vivere la propria esistenza; i morti. Coloro che aspettano sempre da ‘qualcun altro’ le indicazioni su come fare, che cosa dire, che cosa pensare, come muoversi. I crudeli, senza originalità né gusto della ferocia e della crudeltà. I senza-cura e i senza-sapere, che si aspettano sempre i risultati senza sacrifici e le trasformazioni nello scenario senza sforzo personale – regalati.
E che sono sempre pronti a maledire e a lamentarsi furiosamente quando (puntualmente, comprensibilmente) le condizioni non cambiano a questo patto assurdo e infantile. Che noia questa lamentosità diffusa, che non costa niente e che fa sembrare i suoi portatori così intelligenti, così aggiornati sulle cose, così depositari-dei-segreti-dei-complotti. Ma il complottismo, si sa, è la nostra grande consolazione nazionale da più di qualche decennio.
Urge una nozione nuovamente impegnativa e audace dell’identità italiana, da contrapporre a questa insopportabile arrendevolezza e passività (: educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita).
***
Amare la mutazione, l’evoluzione: crescere, diventare adulti; assumersi le proprie responsabilità, assaporare il gusto (persino) delle responsabilità; imparare a controllare la propria paura; fare del disagio il centro della propria attività; incanalare infine le energie individuali e collettive; costruire.
Uno dei ragazzi che spaccano le cozze in piazza San Giuseppe a Taranto, tutti i giorni, una volta mi ha detto qualcosa che lì per lì mi è sembrato tremendo, soprattutto in bocca a un ventenne, ma poi non mi ha più abbandonato, e non mi abbandonerà più. Io o Alessandro gli avevamo chiesto qualcosa riguardo a come vede il suo futuro a Taranto, e lui ha risposto in dialetto: “Quale futuro… Quando sarò morto, sarà come non aver vissuto”. Bum. Questa frase atroce, questo pensiero spaventoso incistato lì, di mattina, in quella piazza e su quelle sedie umili di legno, è in realtà un regalo incredibilmente prezioso: un’intera sensibilità che, pur nella sua negatività, contiene potenzialità incredibili. Quest’amarezza tipicamente italiana e meridionale – ripeto, elaborata spontaneamente da un ventenne, sulla base di un’esperienza che supera già ampiamente, incommensurabilmente quella di tutti i settantenni che conosco – lascia intravedere uno stato d’animo, una condizione, che tutta l’arte e la critica dovrebbero inseguire. Uno stato al di là. Un segreto. Non così diverso poi, se ci pensiamo bene, sia dal grunge che dalla Metafisica. Una condizione sfuggente, inafferrabile, evanescente, spettrale, pesantissima, e proprio per questo estremamente importante – che aspetta solo di attivarsi, di essere messa a pieno regime. Di autorealizzarsi, ricostruendo, riprogrammando il senso di un’identità individuale e collettiva: “la mia idea di patria è modesta. Amo ciò che è piccolo, amo le cose e le creature infinitamente piccole, mute, che ci guardano con coraggio. Esse si appellano a noi dal fondo della loro tristezza e innocenza… ecco la mia idea di patria” (Anna Maria Ortese, Non da luoghi di esilio, in Corpo celeste, Adelphi 1997, p. 163).
GHOST TRACK
“Credo di fare quello che devo e che le mie attività abbiano un certo senso. Non direi mai che abbiano un significato in assoluto, se non altro ce l’hanno per me, e provo una grande gioia quando riesco a fare cose che mi procurano soddisfazione. Amo questa sensazione, quando capisco che mi sto sempre più realizzando. La cosa positiva dell’autorealizzazione è che non si aspira a diventare perfetti. Non si cerca di diventare più profondi, moralmente migliori o buoni come angeli. Non ci si sottomette a un modello ideale che va al di là del tempo e dello spazio. Ma s’impara a riconoscersi come esseri viventi, dotati di un corpo; mammiferi insomma, che si muovono attraverso il tempo, avendo una certa massa e occupando un certo spazio” (Culture e subculture. Intervista a Bruce Sterling, in D. J. Brown, Riflessioni sull’orlo dell’Apocalisse, Mondadori 2006, p. 285).
Christian Caliandro
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