Guardare la vita (con l’arte) #2. Su Filiberto Menna
A Filiberto Menna abbiamo dedicato due articoli della rubrica “educational” di Artribune Magazine. A partire dallo scritto del 1966 “Sulla educazione artistica”. In questa seconda parte vi raccontiamo più approfonditamente del suo impegno politico. Sperando di contribuire alla riscoperta di una figura importante del nostro panorama intellettuale.
Accanto alle proposte avanzate nel 1966 Sulla educazione artistica e a una serie di manovre portate avanti nell’ambito dell’insegnamento universitario, Filiberto Menna ha espresso negli anni una militanza pedagogica che, dall’osservatorio privilegiato dell’arte, ha allungato lo sguardo sul campo della politica e delle riforme scolastiche con lo scopo di promuovere un equilibrio tra differenti saperi. Per creare, cioè, una gestione democratica della cultura e una interdipendenza polifonica in grado di garantire una maggiore armonia – un rapporto dialettico – tra la dimensione individuale e la dimensione sociale, tra il privato e il pubblico, tra l’io e il noi, tra il mondo degli intellettuali e quello delle istituzioni. Tra il dentro e il fuori, più precisamente. A condizione che il dentro – l’intimo e il confidenziale – sia esso stesso politico e che il dono grazioso della classe amministrativa (della classe dominante) non sia sempre quello “di scaricare sui cittadini una situazione fallimentare”.
Infatti, se da una parte Filiberto Menna insiste fortemente sul ruolo di un intellettuale capace di evitare che la propria “funzione si chiuda entro i confini di una pura specializzazione professionale, come pretendono i canoni della efficienza voluta dalla società capitalistica”, e che si vada a creare, per giunta, una classe mercenaria – alla mercé dell’orizzonte politico di turno e di un orticello acchiappa-consensi – priva di scrupoli (o, peggio ancora, priva di ideali efficaci – mediante l’organizzazione di manifestazioni culturali, quelle della politica delle strutture e quella della politica dell’effimero – a migliorare il volto sociale per equipaggiare il cittadino con un arsenale riflessivo nei confronti di un modello in cui l’uomo è soltanto spettatore e puro consumatore), dall’altra avanza un programma che metta definitivamente “radici nella vita comunitaria”, che coinvolga “all’interno del mestiere una fetta di realtà sempre più ampia, dilatando al massimo i confini degli interventi, inserendoli in un disegno strategico di natura politica […], tenendo ben presente che non si tratta di sostituire un potere con un altro potere, quanto di cambiare la qualità, la natura stessa del potere”.
Partendo da queste indispensabili premesse, Menna concepisce così un’immagine pedagogica che non solo travalica gli apparati piramidali del potere (che vogliono confinare la storia dell’arte “in una posizione periferica e subalterna”) e quelli altrettanto verticali dell’educazione scolastica (che stabilisce regole e predilige alcuni insegnamenti a discapito di altri), ma mira a intrecciare arte, istituzioni e domanda sociale al filo della partecipazione e della cooperazione. Il problema individuato (un problema “a tre termini – l’artista o l’intellettuale in genere, le istituzioni, la collettività”) è, del resto, quello di uscire “dal ghetto della propria separatezza” per “approfondire ed allargare” la conoscenza (e la coscienza) del reale.
“Il momento storico che stiamo attraversando appare sempre più segnato da una fortissima domanda di partecipazione, dalla esigenza, da parte dei cittadini di ogni ceto, di prendere la parola e di intervenire direttamente nella gestione della vita quotidiana”, evidenzia Menna in un intervento apparso su La Voce della Campania il 19 settembre 1976. Non si tratta però di una semplice “esigenza elitaria, portata avanti da una avanguardia giovanile” sessantottina, ma di un più ampio raggio che investe l’intera popolazione (“quel ceto medio che non sembrava ancora aver trovato una propria identità, diviso com’era tra l’impegno puramente professionistico e uso alienato del tempo libero”) e muove dalla volontà di riformare l’istruzione per costituire, con l’arte e con la cultura tout court, delle leve di cambiamento sociale che possano aprire la strada a una società più giusta e libera.
Antonello Tolve
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #24
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