La nuova Finarte. Intervista con Giancarlo Meschi
Fallita nel 2011, la casa d’aste Finarte torna alla ribalta il prossimo autunno. Con una nuova società e parecchie idee. Ce le siamo fatte raccontare dal presidente, Giancarlo Meschi.
Partiamo dai dati: quando sarete operativi? Quali saranno i primi passi?
La società è attiva dallo scorso anno, dopo che ha acquisito il marchio dal fallimento. Abbiamo dedicato i primi mesi di esercizio a studiare il mercato, a cercare di capire come strutturarci e come posizionare il marchio Finarte; poi un paio di mesi a creare la squadra che lavorerà al progetto. Da marzo siamo propriamente operativi, con la presentazione avvenuta nella sede storica di via Brera. La prima asta è già pianificata per ottobre. Per ora lavoriamo alla raccolta delle opere: ci stiamo orientando su un’asta di arte italiana, che vuole essere il nostro core. Una selezione di importanti lotti, che andrà dai fondi oro fino all’attualità.
Quale sarà il vostro campo d’azione?
Il nostro obiettivo primario è rilanciare l’arte italiana: noi abbiamo la moda e sappiamo venderla, così come il design, e abbastanza il food. Poi abbiamo, come qualcuno dice, il 50% dell’arte mondiale, e non sappiamo venderla. Nel contemporaneo, l’Italian Sale si fa a Londra. Noi vorremmo essere in grado di servire i collezionisti e il mercato italiano avendo un canale che opera dall’Italia stessa.
Ma non batterete solo aste di arte contemporanea…
No, abbiamo quattro dipartimenti: Moderno e Contemporaneo, Ottocento, Old Masters e Fotografia. Stiamo poi lavorando, per ora con operatori esterni, su sezioni dedicate all’Arte Africana e Mediorientale e al Design.
Quale sarà il vostro approccio al mercato italiano, sulla base degli studi che avete realizzato nei mesi scorsi?
Siamo sei azionisti che vengono da mondi diversi, finanza, industria, c’è solo Attilio Meoli che aveva lavorato già in Finarte. Siamo però abituati a fare investimenti, a fare start up: abbiamo studiato il mercato, rendendoci conto che esiste una fascia che riguarda pochi artisti italiani e che viene coperta dalle due grandi case d’asta mondiali, e poi da una serie di soggetti molto piccoli, di origini mercantili. Riteniamo che ci sia spazio per coprire quella fascia di mercato intermedia, ed è lì che ci vogliamo posizionare.
Dopo l’asta di ottobre, ne faremo almeno due il prossimo anno, e poi partirà un piano di sviluppo che arriverà alla quotazione in borsa, per avere risorse per poter operare a livello internazionale. Poi una parte rilevante avrà il canale online: fra i nostri soci c’è Diego Piacentini, il numero due di Amazon, che ha una competenza evidente nel settore. Siamo convinti delle potenzialità del mezzo, intendiamo arrivare a programmare aste fatte in sala qui in Italia, ma visibili nel mondo grazie alla Rete.
Quale sarà il vostro atteggiamento verso le gallerie d’arte?
Le gallerie hanno e avranno sempre un ruolo insostituibile nel contemporaneo non storicizzato: sono loro che scoprono gli artisti, non sono le case d’asta. Quando un’opera è storicizzata, e ha delle transazioni di secondo livello, è chiaro che la trasparenza che ha raggiunto il mercato rende più semplice l’attività della casa d’aste, che fa da intermediario, al contrario del mercante che acquista e rivende con margini importanti. Oggi questo è cambiato, e la diffusione delle informazioni ha portato alla contrazione di questi margini: in questo senso le gallerie oggi fanno più fatica rispetto alle case d’asta. I galleristi saranno sempre più bravi di noi nel capire l’arte; noi speriamo di essere più bravi nel venderla.
Massimo Mattioli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #24
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati