Parlando dei 20 neo direttori nominati da Franceschini
Qualche ora fa vi abbiamo dato in tempo reale i nomi dei 20 neodirettori che andranno a guidare altrettanti musei italiani. E sono fra i più importanti, dalla Pinacoteca di Brera al Museo di Capodimonte, passando per l’ammiraglia Uffizi. Ora è tempo di qualche riflessione intorno a procedure, nomi, curriculum…
DARIO FRANCESCHINI IN & OUT
Non abbiamo dubbi, qui ad Artribune: non scegliamo a priori colori politici o avalliamo l’opera dei singoli, ma valutiamo i singoli provvedimenti nel merito. Vale a dire che riflettiamo sulle procedure, sulle scelte, sulle attività concrete, sui risultati. Che è poi il concetto esteso di accountability, e quello sì che ci piace senza troppe remore. Tanto più quando si tratta di gestire beni e denari che appartengono e provengono dalle tasche dei cittadini, di questi tempi non particolarmente gonfie e dunque meno che mai disposte ad accettare le malegestioni.
Questo discorso è valido ovviamente anche e soprattutto quando si parla di Ministero della Cultura, o di Mibact, volevo usare l’acronimo attuale. E nella fattispecie su quanto sta facendo il titolare del dicastero, Dario Franceschini. Per rendersene conto, basterà fare una semplice ricerca nell’archivio del nostro sito, dove di volta in volta abbiamo espresso il nostro giudizio sui provvedimenti adottati. Senza mancare di sottolineare le scelte meno condivisibili, come – per non citare che un esempio macroscopico – la preferenza di Federica Galloni al posto di Direttore Generale per Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane, dove a nostro avviso era ben più meritevole Francesco Prosperetti (a lui tra qualche giorno una grande intervista su queste colonne).
I DUBBI SULLA PROCEDURA
Per venire all’attualità, la questione delle nomine dei 20 direttori dei principali musei italiani ha luci e ombre molto nette.
Le ombre riguardano innanzitutto la procedura. Lenta, in primo luogo, tanto da comportare un lungo periodo di vacanza dei ruoli apicali in strutture che ne hanno un bisogno primario. Si tratta perciò, nelle prossime occasioni, di snellire e velocizzare tutte le fasi di selezione; e questo non significa renderle meno “serie”: basta dedicare a tali questioni il tempo di cui necessitano, riducendo – questo sì – il tempo che è invece dedicato ai bizantinismi politici di cui il Ministero ha mostrato di essere ancora ben avvinghiato. Prova ne sia che alla fase più importante – ovvero quella in cui la commissione doveva selezionare la shortlist di tre candidati per ogni museo – sono stati concessi soltanto tre giorni, a fronte di settimane per decisioni ben più rapide da effettuare.
E ancora in merito alla procedura: nulla da dire sulla professionalità dei componenti la suddetta commissione, ma è sensato che le medesime persone decidano su uno spettro che va dall’archeologia all’arte contemporanea? Vero è che i direttori dovranno essere innanzitutto dei manager, ma le competenze specifiche erano comunque richieste dal bando, e quindi non si capisce perché non debba possederle anche la commissione giudicante. La quale, last but not least, ha risolto in 15 minuti a testa i colloqui orali. Un tempo che ha il sapore più di un pro forma che di un reale approfondimento del dossier inviato dai candidati. Un tempo che ha lasciato perplessi molti candidati, anche alcuni – specie stranieri – che poi l’hanno spuntata!
Infine, il tasto più dolente e macroscopico, che però passa quasi inosservato in un Paese come l’Italia, dove la politica mette il naso ovunque: la commissione ha consegnato una terna di nomi per ogni museo al ministro, ed è lui ad aver effettuato la scelta. Con quali competenze di merito, è un interrogativo dalla risposta semplice. Va da sé che, trattandosi di strutture statali, il ministero non poteva lavarsene le mani ed esternalizzare totalmente la scelta; ma è altrettanto ovvio che si poteva calmierare di parecchio lo spazio di manovra ministeriale.
LE NOVITÀ CHE FANNO BEN SPERARE
Detto tutto questo, l’intera operazione è già di per sé rivoluzionaria per l’Italia: perché – al netto della perfettibilità di cui sopra – si è trattato comunque di un processo piuttosto lineare e trasparente.
Lineare, trasparente e rivoluzionario a tal punto da far saltare sulla sedia un pezzo grosso del museum world spagnolo come Guillermo Solana, direttore del Thyssen Bornemisza di Madrid: “Quando faremo questo anche in Spagna?”, si è chiesto in un tweet direzionato proprio a noi di Artribune. Per una volta, insomma, è il grande mondo dei musei internazionali a guardarci con invidia.
E i risultati concernenti le scelte fanno ben sperare, andando nella direzione che auspicavamo a fine luglio. In primo luogo sul tasto dell’internazionalità: nominare sette stranieri su venti è una percentuale che non si era mai vista nella storia patria (le schede dei singoli neodirettori le trovate qui). Puntualissime arriveranno le accuse di esterofilia, di provincialismo, di lesa maestà delle nostre sacre poltrone; in realtà la questione è molto più semplice: a parte il côté di marketing, che non manca, in ogni comunità scientifica si sceglie in base al curriculum. E se il candidato è italiano o tedesco, povero o ricco, bianco o nero, maschio o femmina, eterosessuale od omosessuale e via dicendo, è irrilevante. Conta il curriculum, il progetto, la proposta.
Poi, inutile negarlo, qualche forzatura ci sarà stata. Senz’altro il ministro avrà magari forzato per avere il 50% di donne (perché è una bella storia da raccontare), avrà forzato per avere tanti ma tanti stranieri (perché è una bella storia da raccontare) e avrà forzato per avere alcuni under 40 (perché non avere under 40 sarebbe stata una brutta storia da raccontare, mentre averne un paio di baldanzosi proprio al sud è perfetto).
Quindi sette stranieri su venti, e una perfetta suddivisione di genere, con dieci donne e dieci uomini. Ma gli “stranieri” sono davvero “soltanto” sette? O potrebbero essere conteggiati come “stranieri” anche i tanti cervelli di ritorno cui il dispositivo messo in piedi da Franceschini ha dato l’opportunità di rimpatriare dall’estero? Altra bandierina da apporre nella sezione dei pregi, allora: i quattro italiani che tornano nel loro Paese. Ed ecco che il computo degli “esteri” arriva a undici su venti. Anche questa sarà pure un’abile mossa comunicativa, ma va nella giusta direzione. Ovvero: ben venga la circolazione delle persone e delle competenze nell’arena globale, ma senza squilibri macroscopici fra in & out. Questo significa quindi importare talenti dall’estero ma anche permettere agli italiani che fanno parte della nutrita schiera del brain drain di poter scegliere – e magari scegliere di tornare in Italia dopo un periodo trascorso all’estero (seminale in questo senso la nomina del direttore del Museo Egizio di Torino, Christian Greco).
Infine, la questione anagrafica: anche qui Franceschini (e la commissione nel passaggio precedente) pare aver dimostrato che le scelte sono state operate prescindendo da fattori esterni. Quindi l’età non conta, è un dato irrilevante; e quindi il range è compreso fra i 34 anni di Gabriel Zuchtriegel, che va al Parco Archeologico di Paestum, ai 63 di Paola Marini, nominata alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. E intanto le chiacchiere sullo scontro generazionale possono restare al loro posto, ovunque purché fuori dai processi decisionali basati sul merito.
I NOMI
E adesso una piccola disamina dei venti fortunati. A partire da Anna Coliva, l’unico caso in cui, per dirla col Capo del Governo, non si cambia verso. Forse i candidati non erano all’altezza, forse il museo (la Galleria Borghese) è qualcosa di troppo specifico e particolare, forse i risultati della Coliva sono stati oggettivamente buoni. Insomma, il museo immerso dentro Villa Borghese è l’unico che non ha cambiato direttore. Peraltro qui, come negli altri tre musei romani che concorrevano, solo direttrici donne. Cristiana Collu aveva subito tutta una serie di delusioni (a partire dal Padiglione Italia della Biennale passando dal Macro, sempre a Roma) e allora è stata, come prevedibile, risarcita oltre ad aver fatto pesare il suo curriculum nei confronti di una concorrenza tremenda. Ed eccola alla GNAM alle prese con una sfida difficilissima sia gestionale sia culturale. Alla Galleria Nazionale d’Arte Antica invece va Flaminia Gennari Santori: non sarà facile il compito di svecchiare Palazzo Barberini e soprattutto Palazzo Corsini. Musei da dotare di servizi, di ruolo cittadino, di funzionalità aggiuntive.
Uno dei nomi più discussi sarà quello di Eike Schmidt: perché seccare gli attuali vertici che pure si erano ripresentati per una riconferma e premiare un tedesco che faceva il curatore a Minneapolis? Davvero si vogliono “umiliare i soprintendenti”, come ha tuonato Vittorio Sgarbi subito dopo aver letto i nomi dei neodirettori? Anche se fosse, la necessità di cambiare i connotati alla foresta pietrificata dei musei italiani val bene qualche forzatura, a nostro avviso.
Nomine più lineari quelle di Paola Marini alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (chissà cosa dirà quando vedrà i terrificanti spazi espositivi appena inaugurati – quelli dove è allestita in questi giorni la pur bellissima mostra di Mario Merz – e dedicati all’arte contemporanea…), di Serena Bertolucci al Palazzo Reale di Genova e della sempre lucidissima Enrica Pagella al Polo Reale di Torino.
Mentre il secondo museo “di peso”, dopo gli Uffizi naturalmente, va a un altro straniero sebbene molto radicato in Italia: James Bradburne si prende la Pinacoteca di Brera. A Palazzo Strozzi ha fatto davvero bene, riuscendo a trasformare un palazzo storico in un hub di stimoli culturali conficcato nel cuore della città. A Milano la sfida sarà terribile: tra l’altro lì dove molti hanno fallito. Ma nella grande crescita sociale e di ruolo della città di Milano, Brera può e deve inserirsi alla grande. Con una Milano così in spolvero c’è in gioco la possibilità di cambiare i pesi cultural-turistici del Paese: non più Roma-Firenze-Venezia per i tour operator più sbrigativi, ma una necessaria tappa anche in Lombardia. Brera, in questa geopolitica, conta enormemente.
Gli stranieri sono tanti, ma soprattutto gli stranieri si sono presi i musei più importanti. E questo va oltre il banale computo numerico: Sylvain Bellenger si è accaparrato quello che probabilmente è il terzo museo per importanza tra quelli “in palio”. C’erano bei nomi a contendergli il titolo, ma il suo curriculum appare effettivamente notevole. Altro museo di primissima fascia sono le Gallerie dell’Accademia di Firenze, e anche qui ecco lo straniero che ha le fattezze germaniche di Cecilie Hollberg. Il capoluogo toscano, insomma, meta d’elezione da sempre degli intellettuali teutonici, si guadagna ben due direttori tedeschi. La terza (Paola D’Agostino al Bargello) è napoletana ma da anni lavorava in America tra Yale e il Metropolitan: una bella riconquista per i musei italiani e per la città di Firenze.
E poi passiamo a qualche storia bella e curiosa. Come quella di Marco Pierini che si prende una fantastica rivincita (leggete qui) dopo essersi dovuto dimettere dalla Galleria Civica di Modena. (A Modena tra l’altro arriva, alla Galleria Estense, Martina Bagnoli, medievista con lunga carriera negli Stati Uniti). Come quella di Mauro Felicori, perché grazie al concorsone di Franceschini può capitare che uno che ha fatto per trent’anni il dirigente comunale a Bologna (sempre impegnato nelle politiche culturali) diventi direttore di un luogo del calibro della Reggia di Caserta. O può capitare – è il caso di Paolo Giulierini – che un archeologo di Cortona, che lavora al Museo di Cortona da quindici anni, diventi il capo del Museo Nazionale di Napoli che per quella città è, semplicemente, “il Museo” per eccellenza.
E poi ci sono i giovani, soprattutto archeologhi, Gabriel Zuchtriegel a Paestum è l’unico nato negli Anni Ottanta, Eva Degl’Innocenti di Pistoia torna in Italia, da Parigi, al Museo Archeologico di Taranto, Carmelo Malacrino ha compiuto l’ultima parte della sua carriera in Calabria e in Calabria riesce a restare: sarà lui a dover sbrigare tutti i problemi che ancora attanagliano il Museo Archeologico di Reggio, restaurato da Paolo Desideri e “decorato” da interventi di Alfredo Pirri. E poi ci sono gli austriaci i quali, insieme, ai tedeschi costituiscono di gran lunga il cluster – quello germanofono – più ampio tra i vincitori stranieri: Peter Assmann va al Palazzo Ducale di Mantova e Peter Aufreiter alla Galleria Nazionale delle Marche.
Storie e percorsi diversissimi, ma per tutti un destino comune: dimostrare che davvero la riforma di Dario Franceschini funziona e gira. Dimostrare insomma che queste istituzioni possono essere gestite nel senso più rotondo del termine: scelte, fornitori, personale, staff. Che questi venti professionisti siano liberi di fare, di scegliere, di sbagliare. Con un quoziente di autonomia che renda onore alle strabilianti istituzioni che dovranno condurre fuori dalla polvere e dalla pozzanghera delle occasioni perdute e delle potenzialità inespresse.
Marco Enrico Giacomelli e Massimiliano Tonelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati