Sulla nomina dei nuovi direttori di museo. Considerazioni etiche e politiche
Continua – e presumibilmente continuerà a lungo – la discussione in merito ai venti neodirettori dei musei statali nominati da Dario Franceschini. Oggi prende la parola Michele Dantini, per il quale questa è una “sconfitta sanguinosa”.
HA RAGIONE SGARBI?
Una premessa per cominciare: non voglio qui discutere il merito delle singole nomine e neppure considerare in dettaglio la procedura, anche se c’è chi, come Vittorio Sgarbi, contesta (mi pare legittimamente) determinati aspetti connessi all’attribuzione di punteggio per la prova orale.
Desidero invece proporre una riflessione sull’intero processo, la piega dei rapporti tra politica e cultura e talune ricezioni puerilmente entusiastiche sulla “rivoluzione” che il conferimento degli incarichi costituirebbe.
IL SACRIFICIO DI NATALI
In primo luogo. Dispiace che ottimi professionisti siano stati sacrificati a un imperscrutabile disegno generale. Faccio i nomi di Antonio Natali o Matteo Ceriana, ma non sono i soli cui possiamo riferirci.
È discutibile che un uomo politico sprovvisto di un qualsiasi titolo scientifico (o un burocrate in sua vece) possa porre fine alla meritevole carriera di studiosi di fama, cui dobbiamo eccellenti mostre. Punto. Quale riconoscimento abbiamo, in Italia, della probità e della competenza?
CHE FINE HANNO FATTO I RICERCATORI?
La storia dell’arte universitaria ha giocato un ruolo marginale, sia a livello di commissione che a livello di nomine. Perché? Personalmente non credo che a un ricercatore brillante manchino le capacità strategiche di cui si va in cerca. Chi per abitudine riconosce con prontezza le necessità prioritarie di indagine in un determinato ambito di studi è costantemente alle prese con decisioni complesse, anche pratiche, e agende intricate. È del tutto in grado di amministrare e “valorizzare” un museo.
Di recente il vicedirettore di uno dei maggiori quotidiani italiani ha equiparato il direttore di museo a un “maestro di scuola”, riservando palese disprezzo al maestro di scuola. Potremmo chiederci se questo atteggiamento anticulturale non costituisca un grave problema nel nostro Paese, ben più del “ritardo” che Dario Franceschini ha imputato ai direttori uscenti.
Ci viene adesso assicurato che ai nuovi direttori sarà data la possibilità di operare con maggiore libertà. Non ci si poteva mobilitare già per i predecessori?
LA QUESTIONE INTERNAZIONALE
In secondo luogo. Esistono aspetti sociali e culturali che non dovremmo trascurare. In un momento di gravi difficoltà occupazionali, soprattutto tra i giovani, e di penosa riduzione dell’occupazione qualificata, in primo luogo umanistica, è giusto conferire vantaggi concorsuali de facto a studiosi e conservatori che non siano italiani sembra un atto di sfiducia nei confronti di se stessi, assurdo e insensibile al tempo stesso.
La guerra di posizione combattuta contro questo o quel sindacato non autorizzano un premier responsabile a perseguire attivamente lo svantaggio dei propri concittadini, o a fare in modo che questo sembri effettivamente essere accaduto.
Che in altri Paesi il criterio nazionale sia irrilevante è una favola che chiunque concorra a livello internazionale può facilmente sfatare. Ovunque è considerato fisiologico e persino legittimo proteggere le migliori opportunità.
Sostengo che il concorso doveva essere chauvinisticamente recintato? Ma per carità. Si poteva però usare maggiore avvedutezza nell’assegnare gli incarichi, ed evitare umiliazioni che non rispondono ad alcuna utilità riconoscibile. “Nonostante la retorica della ‘valorizzazione’”, ha osservato giustamente Salvatore Settis, “quasi tutti i neodirettori non sono manager della cultura, ma storici dell’arte o archeologi con [semplici] esperienze museografiche”. E dunque?
UNA SCONFITTA SANGUINOSA
Si tratta adesso di ammettere, per la comunità italiana degli storici dell’arte, una sconfitta purtroppo sanguinosa. Certo non per la chiamata di rispettabili professionisti stranieri in un Paese in cui la politica per prima è ferocemente nepotistica e corporativa, ci mancherebbe. Ma per non essere stati in grado di difendere studiosi qualificati, colpevoli solo di essere schivi; e per il modo punitivo in cui si è arrivati al bando internazionale o se ne è salutata la conclusione.
È evidente che abbiamo insistito troppo su impalpabili questioni di decoro. Troppo poco invece su ricerca, innovazione, opportunità di impiego a elevata qualificazione. Dovremo mutare retorica e orizzonti, nell’immediato futuro.
Michele Dantini
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