Massimo Siragusa e l’Italia raccontata dai circoli

Massimo Siragusa, catanese classe 1958, ha vinto fra l’altro diversi World Press Photo. Un fotografo, dunque. Che si occupa soprattutto di paesaggio e spazi architettonici che raccontano l’Italia. Lo abbiamo intervistato in occasione della mostra “Lo spazio condiviso”, allestita a Palazzo Tadea di Spilimbergo.

Quando si è avvicinato alla fotografia? Ha un nitido ricordo a cui lega questa sua scoperta? 
Alla fotografia mi sono avvicinato, per passione, al liceo. Poi questo mio interesse è maturato sempre di più all’università, dove ho iniziato veramente a scattare.
Ho studiato da autodidatta. Per un periodo della mia vita sono stato gallerista: ho conosciuto fotografi come Gianni Berengo Gardin e Ferdinando Scianna. L’incontro con Scianna ha determinato il mio cammino: mi ha fortemente incoraggiato a intraprendere la professione da fotografo. E, infatti, la prima parte della mia carriera è stata da fotoreporter.
Un altro incontro importante è stato quello con Roberto Koch – fondatore e direttore di Contrasto – a Les Rencontres d’Arles. Ho mostrato il mio portfolio e sono entrato in agenzia. E poi è stato tutto un crescendo.

Ha dei maestri che ha particolarmente studiato e/o che ha personalmente conosciuto?
Ero avido, insaziabile: mi sono sempre nutrito di tutto ciò che riguardava la fotografia. Non c’è stato solo Ferdinando Scianna, ho avuto moltissimi maestri. Nell’arco degli anni, avvicinandomi alla professione, ho lasciato alcuni fotografi come riferimento e ne ho presi altri che avevo lasciato in precedenza. I riferimenti in fotografia mi hanno accompagnato e continuano ad accompagnarmi tuttora. È indispensabile farsi guidare dai propri maestri, perché come tutte le arti anche la fotografia ha la necessità di avere dei punti di riferimento.

Cosa rappresenta per lei la fotografia, emotivamente parlando?
Ho scelto di fare il fotografo più per esprimermi che non semplicemente per raccontare delle storie. Ho deciso di raccontare me stesso attraverso il mio modo di vedere la realtà. La fotografia l’ho scelta come forma d’espressione, per raccontarmi verso l’esterno.
Prima di fare il fotografo, ho fatto scelte politiche con l’idea di fare il giornalista, poi mi sono ritrovato lo strumento della macchina fotografica tra le mani. Per molti anni mi sono dedicato al reportage, per la curiosità nei confronti della realtà che mi circondava: di fatto ogni storia che raccontavo era una scusa per raccontare una storia più intima.

L'Aquila. Circolo Aquilano, 2014. Foto © Massimo Siragusa

L’Aquila. Circolo Aquilano, 2014. Foto © Massimo Siragusa

Solitamente ciò che si fotografa viene dal nostro inconscio. Nella sua fotografia si percepisce un chiaro fascino per luoghi di particolare bellezza architettonica. Come riesce a spiegarsi questo magnetismo?
Nel tempo, la mia attenzione da storie di persone è passata a storie di luoghi, di ciò che l’uomo ha creato e che crea trasformando il territorio. In questo senso, la scelta va di pari passo con la mia necessità di espressione: attraverso i luoghi riesco a raccontarmi ancora meglio di quanto avessi fatto in passato.

Come sceglie un dato luogo affinché diventi il soggetto per una sua ricerca?
La scelta di un posto è dettata da vari fattori: è difficile individuare un solo modo. A volte la scelta è casuale. Mi trovo a scoprire un posto, la magia dentro uno spazio, e mi fermo per fotografarlo, oppure ci ritorno e lo fotografo in un secondo momento. In altri casi, la scelta del posto è dettata da altri, per cui decido cosa fotografare di quel luogo in modo che riesca ad appropriarmi della richiesta.

Il suo stile è quello di descrivere questi luoghi usando la tecnica della sovraesposizione. Come è arrivato a definire questa scelta e perché?
È una scelta maturata nel tempo, culminata nel 2000, un cambiamento radicale, in cui ho abbandonato la fotografia di reportage e mi sono avvicinato a una fotografia di paesaggio, più meditativa.
Ho approfondito sia l’approccio che la metodologia di lavoro: da una macchina piccola formato per gli avvenimenti a una macchina grande formato, appoggiata sul cavalletto. Ho avuto anche la necessità di cambiare la mia attitudine nell’interpretare la realtà: mi sono avvicinato alla fotografia mitteleuropea, legata a una luce più tenue. Ho cercato di tradurre la realtà con estrema perfezione, con armonia cromatica, di colore pastello. Me ne sono appropriato e l’ho prodotta in questo modo. E in questo sicuramente sono stato influenzato dalla luce siciliana della mia terra.

Massimo Siragusa - Spazi Condivisi – veduta della mostra presso Palazzo Tadea, Spilinbergo 2015 - photo © Terry Peterle

Massimo Siragusa – Spazi Condivisi – veduta della mostra presso Palazzo Tadea, Spilinbergo 2015 – photo © Terry Peterle

Quest’anno si è classificato secondo nella sezione Architettura per il Sony World Photography Award per il progetto Spazi Condivisi. Per lo stesso progetto ha ottenuto il riconoscimento Friuli Venezia Giulia 2015. Com’è nato e qual è l’intento?
Spazi Condivisi ha ottenuto anche il premio MIFA, Premio Fotografico Internazionale di Mosca. Il lavoro è nato l’anno scorso insieme a Mario Peliti, gallerista di Roma, che da alcuni anni ha aperto la Galleria Cembalo a Palazzo Borghese. Insieme abbiamo riflettuto su un lavoro specifico da esporre in galleria, raccontando l’Italia dei circoli.
Il nostro Paese ha una tradizione molto forte e trasversale sui circoli, presenti in tutto il territorio nazionale, e racchiude gli interessi di categorie sociali molto diverse – dai minatori di Racalmuto ai nobili del Circolo della caccia di Roma. Il lavoro è durato da novembre 2013 ad aprile 2014, e alla fine dello stesso mese c’è stata la mostra alla Galleria Cembalo, di due mesi, e ora a Spilimbergo.

Lei è anche insegnante all’Istituto Europeo di Design. Nell’era del digitale sembra ci sia una percezione diffusa che la fotografia sia molto “meno impegnativa” rispetto all’era analogica. Per i ragazzi che hanno intenzione di percorrere questo sentiero, quale suggerimento propone per non continuare a nutrire questa mentalità?
Questa è una mentalità che ritengo distruttiva, perché non è vero che la fotografia digitale è facile e quella analogica era difficile. C’è solo stato un cambiamento: nella fotografia analogica c’era un laboratorio che sviluppava le fotografie. Oggi il fotografo è in grado di appropriarsi di questo passaggio, della post-produzione. Per il resto, la fotografia ha mantenuto le sue regole e caratteristiche. Gli strumenti non trasformano un pessimo fotografo in un eccellente fotografo, e/o viceversa.
Come insegnante allo IED, sottolineo un aspetto fondamentale della fotografia: studiare. Non posso tradurre la mia visione della realtà, se non leggo; non posso formare uno spirito critico, se non è formato sui libri. C’è la necessità di costruire una propria consapevolezza. Il livello di maturazione culturale di una persona è quello che permette di fare delle scelte rispetto alla direzione da intraprendere in fotografia. Sennò come si fa a fare una scelta del genere? Sulla base di un istinto? Il mio suggerimento è di farsi una solida formazione culturale, per potersi barcamenare in questo settore.

Terry Peterle

Spilimbergo // fino al 30 agosto 2015
Massimo Siragusa – Lo spazio condiviso
a cura di Mario Peliti
PALAZZO TADEA
Piazza Castello 4
0427 91453
[email protected]
www.craf-fvg.it

MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/46499/massimo-siragusa-lo-spazio-condiviso/

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