Sul cinema italiano. L’editoriale di Marco Giusti
Prosegue la galleria di personaggi e relativi “altri editoriali” pubblicata da Artribune Magazine e poi qui su artribune.com. Questa volta prende la parola Marco Giusti, l’autore – fra l’altro – di programmi mitici come Blob, Fuoriorario, Stracult. E le sue considerazioni prendono avvio da una scena dell’ultimo film di Nanni Moretti…
Ammettiamolo. La lunga fila per vedere Il cielo sopra Berlino al Capranichetta di Roma nell’ultimo film di Nanni Moretti, Mia madre, non è che un sogno, visto che quella sala da tempo non è più un cinema, e le file per vedere un film da noi non esistono più. È una bella metafora nazionale del nostro rapporto col cinema, con l’arte e addirittura con la vita in questi ultimi vent’anni. Come lo è l’invito che Moretti stesso, uscendo dalla fila, fa alla sorella regista Margherita Buy: “Fai qualcosa, rompi almeno uno dei tuoi duecento schemi”.
Vaglielo a spiegare, ora, ai critici internazionali che vedranno a Cannes non solo Mia madre, ma anche gli altri due potenti film italiani presenti al festival – Il racconto dei racconti di Matteo Garrone e Youth. La giovinezza di Paolo Sorrentino – che nel nostro Paese l’unica cosa che non si riesce proprio a fare è rompere gli schemi, cambiare, riprogettarsi. In questo, allora, l’idea di “inadeguatezza” che circola nel film di Moretti, il riscoprirsi figli all’infinito, inadeguati ai ruoli di adulti, sia nella vita che al cinema, diventa improvvisamente fondamentale.
Il non voler crescere o adattarsi all’invecchiamento, il non voler rompere gli schemi, diventa il problema centrale di un Paese, oltre che di un film o di una classe politica, che non può che sentirsi rottamata o messa da parte dalla generazione successiva (quest’idea è di mia moglie Alessandra Mammì). Renziani, sorrentiniani o garroniani che siano. Una generazione che ci immagina e ci percepisce davvero fermi, in fila di fronte a una sala che non esiste più, per vedere un film che non è più di moda. Abbiamo convinto i più giovani della nostra inutilità di intellettuali, della nostra scarsa voglia di insegnare quel che sapevamo, delle nostre ansie e delle nostre nevrosi. E loro partono da un altro punto di vista. Che ci sorpassa proprio. Che non ci considera.
I nostri padri spirituali, i John Ford, i Rossellini, la lettura dei Cahiers e di Cinema e Film non hanno più senso. Le “merendine di una volta” sono finite da un pezzo. Ricordo perfettamente la visione al Capranica di La messa è finita di Nanni Moretti. Esprimeva davvero il pensiero di una generazione. Oggi non possiamo che sognare la stessa concentrazione, ma lo spettacolo non inizierà mai perché siamo dentro un sogno. E le file, i desideri di cultura, passano da strade diverse da quelle del Capranica e del Capranichetta.
Detto questo, non so se il cinema dei Sorrentino e dei Garrone sia superiore a quello di Moretti e di Wenders. Magari ha solo la stessa ambizione di vincere Cannes. Di certo non nasce dallo stesso desiderio di raccontare la realtà e di esprimersi col cinema che aveva segnato la generazione precedente. E ha più voglia di stupirci, di parlare un linguaggio internazionale piuttosto che il linguaggio di un quartiere romano. Anche se poi l’omaggio al Visconti, alle generazioni di quelli che hanno davvero studiato e insegnato a tanti ragazzi diversi, non può umanamente essere ignorato. Quello che non trovo, nel nostro cinema più giovane, magari è il desiderio di costruire l’architettura di un racconto seguendo l’invenzione di un nuovo linguaggio, parta questo da un modello di struttura hawksiano, come fa Tarantino, o sia questo più fortemente “artistico”, alla Gus Van Sant o alla Lars Von Trier. I giovani registi messicani fanno questo cinema d’arte, per esempio. Da noi, di solito, non si parte dalla ricerca di un linguaggio personale. Al massimo si fanno film da festival. Che sono, di fatto, nuovi film di genere.
Ecco: se mi faccio un augurio, pensando al nostro cinema, è che il linguaggio cinematografico, l’idea di costruire un film con una sua lingua, diventi importante come la ricerca di un soggetto. O come l’ambizione di vincere Cannes.
Marco Giusti
critico cinematografico
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #25
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