Architettura enologica. Intervista con Mario Botta
Mario Botta e il vino, ovvero Petra. Uno degli architetti più famosi al mondo ha dato per primo un’immagine architettonica a una delle attività più antiche dell’umanità: la vinificazione. Erano i primi anni del XXI secolo, nel mezzo delle sognanti colline della Maremma toscana, a Suvereto…
Siamo in provincia di Livorno. E Mario Botta (Mendrisio, 1943) ricorda: “È stato il primo progetto di cantina. Poi ho avuto modo di costruirne altre: una piccola, per gestione familiare, in Ticino, un’altra invece un po’ più grande a Château Faugères a Saint-Emilion nel Bordeaux”. Quell’“un po’ più grande” che è servito affinché fosse soprannominata “la Cattedrale del vino”.
Nel caso di Petra, qual è stato il suo approccio creativo e razionale?
Conoscevo già il committente, Vittorio Moretti, ma non avevo mai fatto cantine. Devo dire che il proprietario aveva molta dimestichezza con i meccanismi interni, distributivi e funzionali di una cantina. Tuttavia la committenza non aveva nozione di tutti quei valori simbolici e metaforici di riferimento a questa macchina che è la cantina, nella quale entra il vitigno ed esce il vino. Questo è davvero un aspetto arcaico, ancestrale, appartiene a una cultura millenaria, nella quale l’uomo estrae dalla terra un’essenza straordinaria che nutre il corpo e lo spirito.
Quali erano le esigenze del committente?
Il cliente mi ha domandato di fare una cantina che l’utilizzatore non sapesse se definire moderna o arcaica. Questo input mi è piaciuto. Moretti voleva un luogo di lavoro, di produzione del vino, che fosse moderno ma nel contempo anche molto antico: un’arcaicità del nuovo, insomma. A me è parso un bel tema per l’architetto.
Un imprenditore illuminato….
Sì, lui conosceva il mio lavoro mentre io conoscevo poco il suo, però c’è stata un’intesa. Il suo atto di fiducia rispetto alla possibilità che l’architettura riscatti dei valori simbolici e metaforici mi ha fatto piacere. Credo che un po’ d’ignoranza vada bene quando si comincia un lavoro, perché si deve puntare non sulle cose che si conoscono, ma su quelle che si devono imparare.
Com’è stato possibile coniugare l’aspetto imprenditoriale, tecnico e di filiera, con l’estetica e l’inserimento nel paesaggio di un nuovo elemento?
La cantina è un elemento che segna la presa di possesso di un territorio da parte di chi lo coltiva. Ci vuole un po’ di fiducia verso l’architetto: vedendo le colline ondulate di Suvereto e della Toscana, mi è sembrato di non dover fare un edificio. Sarei stato in difficoltà. Questo territorio era connotato unicamente da capannoni e da un grande degrado.
Fin dall’inizio ho pensato che i vigneti andassero ridisegnati. I vitigni sono dei paesaggi verdi tracciati dall’uomo, tessiture stupende che vanno una volta in una direzione e una volta in un’altra. In mezzo a questo paesaggio ridimensionato pensavo andasse inserita una nuova struttura, come se fosse calata dal cielo, metà astronave e metà chiesa. È un’idea che è piaciuta.
Per la verità, io avevo fatto anche un progetto alternativo, più tradizionale, ma il cliente mi ha indicato di andare avanti con la prima idea: sembrava più forte, con una grande forza iconica.
Ha fatto uno studio retrospettivo sulla costruzione delle cantine in Toscana o in altre parti d’Italia o del mondo?
No, non l’abbiamo fatto perché non era necessario. In quel momento non c’era ancora la cultura delle cantine. Le uve raccolte e tutta la filiera produttiva confluivano nei depositi, nei capannoni o nelle cantine delle fattorie. Non era ancora nata l’idea che la cantina meritasse una sua architettura. Da questo punto di vista siamo stati anche fortunati, perché eravamo meno corrotti da modelli precedenti.
Quali sono i punti cardine del progetto?
Il problema dell’architetto è sempre quello di dare un’immagine di quello che gli è chiesto. Fare una cantina oggi significa costruire un landmark, un prodotto di grande immagine nel territorio, ed è una scommessa che tocca alla nostra generazione. Fino a ieri avevamo solo i contadini che lavoravano il vitigno per trasformarlo in vino, mentre oggi questo lavoro di trasformazione della terra in una cultura è diventato un fatto nel quale anche gli architetti sono coinvolti.
A questo punto bisogna assumersi delle responsabilità, perché la cantina deve parlare della cultura del nostro tempo. Se da un lato deve essere arcaica, in quanto legata a una struttura millenaria, dall’altro questa struttura millenaria non è come mille o duemila anni fa. Oggi si affrontano la tecnologia, la domanda, l’attesa del nostro tempo, e quindi costruire un landmark di un prodotto significa anche contrassegnarlo come prodotto del nostro tempo. È sempre esistita una relazione fra architettura e tradizione vinicola, ma la trasformazione del vitigno in vino non era mai stata oggetto di una propria immagine. Oggi, sempre più, l’immagine architettonica serve anche alla distribuzione e alla pubblicità del prodotto.
Qual è stata la parte più bella della realizzazione del progetto?
Probabilmente costruire una cantina è diverso che disegnarla, per cui preferisco prima parlare di che cosa mi ha fatto paura e poi di cosa mi è piaciuto. Ho avuto paura quando ho visto lo scavo necessario per realizzarla: si è dovuta scavare mezza montagna per immettere l’impianto e la planimetria. Quello che poi mi è piaciuto è quando il territorio ha rimodellato le curve di livello già esistenti. Tuttavia, il primo impatto è stato pesante. Era una vera e propria cava, un vero dissodamento del terreno. Dopo lo abbiamo corretto perché, una volta costruito, abbiamo recuperato l’andamento orografico dell’intorno.
Quanto è durato il cantiere?
Un po’ meno di due anni. Vi è stata una prefabbricazione spinta fatta dallo stesso proprietario, titolare di una ditta di costruzioni a Brescia. La cantina, quindi, potrebbe sembrare l’immagine di un unicum, in realtà è fatta da parti prefabbricate.
Come si è arrivati a individuare il materiale per il rivestimento esterno?
È stata una scelta mia, perché non volevo il prefabbricato di cemento come immagine. Allora ho pensato fin dall’inizio a una pietra. Alla fine siamo caduti sulla pietra di Prun, che è un po’ meno pregiata della pietra di Verona ma ben disponibile nel territorio della Lessinia e mi piaceva il suo colore rosato. Siamo partiti quindi fin dall’inizio con l’idea di un rivestimento di masselli di pietra di Prun.
Com’è stato accolto il progetto dai cittadini nel corso del tempo?
La comunità di Suvereto era molto entusiasta di questa novità. È probabile che ci siano state delle preoccupazioni e delle critiche ma adesso, a distanza di una decina d’anni, non mi meraviglierei se un domani la cantina Petra diventasse un oggetto di tutela e di protezione nel panorama del paesaggio.
L’architettura è qualcosa che nasce dalla terra ed è difficile, parlando di Petra, pensare di trasportarla in un altro contesto. Ogni architettura dipende dal luogo. Una cantina non è legata solo al prodotto: Petra è nata per quel contesto, ha bisogno dell’intorno, delle colline con i vigneti e di quel territorio modellato dall’uomo.
Federica Lavarini
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