LE IMMAGINI CI INTERROGANO
Chi si occupa di immagini è abituato a considerarle come organismi complessi. Di solito, nell’analizzare un’immagine, il problema non è dare delle risposte, ma farsi delle domande pertinenti. L’immagine è essa stessa una soluzione, di solito contraddittoria, a un fascio di problemi posti da una certa congiuntura storico-culturale. Le risposte stanno dentro l’immagine, a condizione che si pongano le giuste domande. Farsi delle domande significa trovare i problemi rispetto a cui l’immagine è una risposta.
Quando si è abituati a ragionare così, ogni genere di immagine diventa un fascio di problemi. Non solo un quadro di David Hockney, ma anche la foto del bimbo siriano riverso sulla spiaggia che intasa le pagine internet di tutto il mondo in queste ore.
Non cerchiamo dunque di dare delle risposte ai vari interrogativi – è giusto pubblicarla? È giusto postarla sulla propria bacheca Facebook? È giusto condividerla sulle bacheche altrui? ecc. Cerchiamo soltanto di porre le domande giuste all’immagine e all’uso che ne è stato fatto, alla sua (brevissima ma intensa) storia. Un’immagine, infatti, ci si presenta sempre carica dell’uso che ne viene fatto e del contesto in cui si inserisce. Le immagini sono creature sociali che vengono interpretate e modificate dalla storia che scorre loro accanto, e si presentano a noi già gravide di questo fardello.
CI SCUOTE CIÒ CHE RICONOSCIAMO
Perché questa immagine e non altre? Perché la foto di questo bimbo e non di suo fratello? Perché questa immagine e non le migliaia di altre foto che da mesi vengono scattate a margine degli esodi drammatici di profughi siriani?
Su una spiaggia, un luogo familiare a qualunque occidentale, dal punto di vista della riva, e cioè di chi accoglie, compare un bambino. Non è un bambino che sta facendo i castelli di sabbia (altra immagine familiare), ma un bambino morto riverso. Quasi mai si dice il nome di questo bimbo, Aylan Kurdi, che non ci mostra la sua faccia: potrebbe essere nostro figlio, un figlio dell’Occidente. Non è nemmeno nudo e non mostra davvero il colore della sua pelle. È vestito all’occidentale. È solo, non con la sua famiglia. “Potrebbe essere mio figlio”. Però non lo è.
Ma non è solo il bambino che potrebbe essere occidentale: è la foto che è intrinsecamente occidentale. Quel bambino, Aylan, è, in realtà, nella posizione del Gesù Bambino addormentato a cui i pittori ci hanno abituato per secoli. Quel bambino, così vicino all’Ecce Agnus Dei di Zurbarán, riesce a essere vicino a noi solo perché l’abbiamo occidentalizzato. Perché non ha la faccia dell’immigrato, perché non ha un nome e perché assomiglia al “nostro” Gesù.
La foto, cioè, insinua un fastidioso tarlo dentro un quadretto perfettamente familiare. Come nei paradossi visivi di Escher, questo è molto più disturbante di una foto di un barcone pieno di cadaveri: una situazione troppo lontana da noi perché davvero ci scuota.
PERCHÉ PROPRIO QUEL BAMBINO?
Come siamo venuti a conoscenza di questa foto?
Qualcuno ieri, qualcuno stamattina di fronte al caffè si è trovato tra le mani (o più spesso, su uno schermo retroilluminato) la foto di Aylan Kurdi molleggiato dal risciacquo delle onde sulle coste di Bodrum. Alcuni giornali l’hanno pubblicata, altri no. Milioni di persone l’hanno condivisa su Facebook, Twitter, Instagram e quant’altro, e milioni d’altri no. Si è scatenato un dibattito in cui ognuno ha le sue ragioni, i pro e i contro si scontrano e ne viene fuori che l’immagine, comunque, viene usata a man bassa e che suscita dibattito. C’è anche dove non c’è, perché per capire le posizioni di chi vorrebbe che non ci fosse, bisogna vederla.
La riproduzione frenetica consentita dai social media, la diffusione capillare delle immagini ci ha assuefatti ad ogni tipo di dolore. Ed è grazie a questa stessa assuefazione, in realtà, che stamattina milioni di persone sono saltati sulla sedia. Il successo di questa immagine si deve, infatti, solo a come noi ci poniamo nei suoi confronti, non al suo oggetto, che rimane un bimbo morto – purtroppo – come troppi altri. Solo perché noi siamo assuefatti a immagini di morte lontane, solo per il nostro bisogno, nell’assuefazione al dolore fotografico, di qualcosa di più vicino (un bambino, senza volto, senza colore e senza nome), che assurgesse al piano simbolico della figurazione (Gesù e l’agnello), questa foto è diversa dalle altre. Non perché ci faccia vedere qualcosa che non sapevamo, un orrore nuovo, chiediamo ai governi di intervenire dopo questa fotografia. Solo lo facciamo perché ha toccato un nervo scoperto. Non c’entra affatto che sia un bambino e basta. Un bambino morto, e basta, si è visto un sacco di volte e non è assurto a vessillo delle rivendicazioni contro i governi sempre più dimentica dell’ideale greco (e sembra ironico, oggi) della Xenía, l’ospitalità.
ECONOMIA FOTOGRAFICA
E qui si apre una serie di questioni spinose: che cosa quella foto non mostra? Non solo quella foto non mostra il proprio meccanismo di attivazione alla nostra coscienza – cioè il suo volerci essere vicina e simbolica, cioè il suo non voler raccontare il dramma, ma piuttosto renderlo interessante per l’uomo medio occidentale. Quella foto, senza il nome – ancora – del fotografo, Nilüfer Demir, ci illude di essersi scattata da sola in una tranche de vie. E invece è una studiatissima immagine per cui un’agenzia fotografica ha oggi chiuso i suoi bilanci della giornata ampiamente in attivo.
È una foto grazie a cui questa fotografa per molto tempo non avrà più bisogno di lavorare. È una foto, insomma, che, nell’economia dell’Occidente in cui viene sbandierata, diventa un oggetto che consente ricchezza e benessere. È una fotografia, poi, che gioca sull’orlo della nostra compassione che si attiva ai margini del voyeurismo. Una fotografia che gioca con l’estetica più propria della fotografia: la morte – la fotografia è un fatto che ha sempre a che fare con la morte, come ci hanno insegnato. Perché l’immagine del dolore sia efficace – lo diceva Ferdinando Scianna – si deve scontrare con i “nostri piccoli giardini di felicità”.
COME SI RAPPRESENTA IL DOLORE
Ma davvero la foto di questo bimbo rappresenta il dolore? In realtà no. Condividere immagini di dolore sulle bacheche Facebook è inusuale, persino imbarazzante. Non è, questa, un’immagine davvero problematica. La verità è che quel bambino è solo: si presenta come un problema individuale, non come un fenomeno di massa da cui, come individui, come europei sulla via del presunto impoverimento, ci sentiamo minacciati.
È zitto, poi, Aylan: non può dire nulla, non può più chiedere nulla. Il silenzio di questo bambino non gli permette di acconsentire a essere riprodotto milioni di volte e non gli consente di dire la sua: ma consente a noi di parlare per lui, di farci noi paradossali portatori del suo messaggio, autoassolvendoci con una rapidità fulminea. Non è il fastidioso ennesimo bambino denutrito che tende la mano, il questuante che ci mette di fronte alle nostre contraddizioni.
Questa foto non denuncia le nostre contraddizioni, ma le sfrutta per essere efficace. Vero è che, nell’essere riprodotta, può diventare un mezzo politico efficace – l’aveva già capito Benjamin. Più efficace di altri, in effetti. Interrogare questa foto nel suo valore di immagine, ci consente di renderci conto di cosa sia efficace nel nostro mondo. E viene da tremare all’idea che abbiamo bisogno di un’immagine così, piuttosto che di tutte le altre che ci sono scorse, indifferenti, sotto gli occhi, per reagire.
IMMAGINE EPOCALE, IMMAGINE VIRALE
Questa foto non sarà mai un’immagine epocale, ma solo un’immagine virale. Come un virus, sarà un episodio temporaneo. Domani rimarrà un materiale d’archivio, e per chi avrà voglia di analizzarla, dirà molto sulla nostra società e sulle sue contraddizioni. A chi capiterà, poi, di ritrovarla riprodotta, su La Repubblica, accanto ad una pubblicità di Yamamay, verrà compendiato un brano di storia dell’Occidente.
Ma non sarà un brano felice, non sarà un risveglio delle coscienze. Rimarrà anche il fatto, che quella foto imprime sulla superficie dei nostri schermi: che Aylan Kurdi è morto. E per rimediare a questo sarà sempre troppo tardi per intervenire.
Giulio Dalvit
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