Talenti fotografici. Intervista a Marco Citron
Marco Citron è nato a Pordenone nel 1974. Lavora sul paesaggio come metafora. Di formazione è filosofo, negli anni dell’università non manca tuttavia di frequentare le lezioni di Storia della fotografia di Italo Zannier. Da qualche anno vive tra il nostro Paese e Cracovia. Da pochi mesi è uscito il suo primo libro per i tipi di Danilo Montanari, “Urbanism 1.01”, con quaranta immagini, dedicato al suo omonimo lavoro, realizzato tra il 2007 e il 2010. La grafica è dell’olandese Sybren Kuiper: ogni immagine è affiancata a una pagina vuota del colore predominante della foto che accompagna. Il testo è di Gerry Badger che, insieme a Martin Parr, è autore di “The Photobook: A History”, un grande compendio sul libro fotografico d’artista e non.
Il punto di partenza di questo lavoro sono le cartoline degli Anni Settanta dell’ex Unione Sovietica. I tuoi sono paesaggi ideologici: riesci a raggiungere l’oggettività dello sguardo attraverso l’eliminazione di qualsiasi forma di autorialità, che tuttavia è il senso della tua ricerca artistica.
Il lavoro ha comportato approfondite ricerche sui luoghi, lunghi tempi di attesa. Il loro vero soggetto è l’immaginario iconografico. I soggetti sono città costruite nel secondo dopoguerra, in seguito alla forte industrializzazione voluta dal regime. Il teatro delle stesse sono la Bielorussia, la Moldavia, l’Ucraina. Fra l’altro, in un’ipotesi di mostra su quel lavoro, mi piacerebbe presentare le cartoline come se fossero foto e le foto come se fossero cartoline. Da un punto di vista dell’esecutivo tecnico, le immagini sono in presa diretta. Trovare paesaggi di questo tipo non era cosa facile. Sono quindi intervenuto con la postproduzione digitale, eliminando dei dettagli, dei segni della nostra contemporaneità. L’ex Unione Sovietica ha avuto una pianificazione edilizia uguale in quasi tutti i suoi territori. Infatti, volutamente, nel libro ho omesso di citare il luogo dove le immagini sono state realizzate e l’anno dello scatto.
Si crea così una sorta di sospensione temporale, un azzeramento.
Ho rispettato un cliché iconico con immagini realizzate in giornate molto soleggiate. C’è un’evidente bassa fedeltà dell’immagine, rispetto alla realtà. Qui l’utopia di un tempo, che voleva essere glorioso, si sgretola. Si evidenzia una contraddizione degli intenti iniziali. In un’immagine c’è un edificio, un museo nel centro di Minsk, sopra il quale svetta la scritta in cirillico: “La vittoria del popolo vivrà nei secoli”.
Si coglie anche il tuo interesse anche nei confronti dell’architettura.
Infatti Badger, che è architetto, non ha mancato di fare riferimento all’architettura brutalista, ma anche all’Unité d’habitation di Le Corbusier. Inoltre ha scritto che è difficile capire se quelle immagini provengono dal mondo sovietico o se sono di mia invenzione. In realtà la questione del limite tra realtà e finzione non viene svelata. Gioco su una sottile ambiguità. Nei confronti del paesaggio, il mio è un ragionamento sull’esistenza.
E qui si trova un legame con Jaspers…
Sono interessato all’idea archetipica del paesaggio. Non mi ha mai interessato fare un lavoro di matrice documentaria.
Nel 2005 hai realizzato Greetings from the Côte d’Azur, un luogo che era nell’immaginario delle persone come idea di vacanza lussuosa, intorno agli Anni Sessanta.
È il lavoro che ha preceduto Urbanism 1.01. Anche qui sono partito dalle immagini delle cartoline postali, che hanno aiutato l’esplosione del turismo di massa. In quel caso il mio approccio era più critico.
Ora stai portando avanti, tra gli altri, un progetto sul Grand Tour contemporaneo, in riferimento a quello classico, di goethiana memoria.
Per farlo mi sto spostando verso l’Italia del sud. Da un punto di vista cromatico c’è un richiamo alla pittura ottocentesca. Ho fotografato in modo delicato gli scempi del contemporaneo: la mia è una visione neoromantica. Anche qui l’immaginario è protagonista.
Nel 2011 hai partecipato con Boris Mikhailov a una residenza d’artista, organizzata dalla Fondazione Izoliatsya in Ucraina, a Donetsk, ora teatro di guerra.
Il 18 aprile ha inaugurato a Kiev una mostra riguardante proprio quel progetto. Come punto di partenza ho chiesto agli abitanti della città quali erano le cose che vedevano più frequentemente davanti a loro. Trattandosi di una città industriale, mi hanno parlato di rapidi mutamenti e di inquinamento, mentre io ho notato una forte presenza in città dell’elemento naturale, al quale ho dedicato il mio lavoro.
Dunque hai lavorato su un “anti-cliché”.
Infatti mi ha colpito la massiccia presenza di verde. Il verde diventa una chiave di lettura della città. Ho fotografo questa foresta urbana, spesso ponendomi su un piano più alto. Poi ho fotografato le persone che passano gran parte del loro tempo in mezzo alla natura: sono situazioni di ritrovo, di condivisione urbana.
Qual è la lezione che hai appreso da Mikhailov?
Forse proprio la scelta dei soggetti, le molte persone che in quel luogo stanno ai margini della società, che vivono, senza fissa dimora, perennemente a contatto con la foresta e con la natura.
Angela Madesani
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #25
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati