Ritrarre l’inesistente: Empire di Samuel Gratacap
Il nuovo lavoro del fotografo francese si focalizza sui rifugiati del campo di Choucha, ex centro di accoglienza, ora zona dimenticata da chiunque. Il suo intento è documentare e soprattutto comprendere l'identità dei rifugiati ostaggi di una situazione transitoria.
UN CAMPO PROFUGHI CHE NON DOVREBBE ESISTERE
Nella parte sud della Tunisia, a cinque chilometri di distanza dal confine con la Libia e a circa una ventina di chilometri dalla città di Ben Guerdane, è collocato il campo di Choucha, aperto dal febbraio 2011 per ospitare i rifugiati di origine subsahariana in fuga dalla guerra libica e gestito dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). Ufficialmente questa zona è stata chiusa nel 2013. In realtà ancora in molti rifugiati senza stato, in attesa di vedere accolta la loro istanza di asilo politico, dimorano qui senza acqua, elettricità e cure mediche, immersi nel pieno deserto. Nell’ottobre del 2014 la croce rossa tunisina (CRT) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) hanno visitato Choucha e informato i rifugiati dell’intenzione di evacuare in modo definitivo il campo.
Samuel Gratacap (1982) è stato ospite presso la struttura dal 2012, anno in cui giunse per accompagnare un giornalista, al 2014. Qui ha scattato fotografie e girato video poi raccolti in Empire, lavoro vincitore de Le Bal Award for Young Artists with ADAGP, presentato nella mostra omonima curata da Pascal Beausse a Le Bal, allestita fino al 4 ottobre 2015.
SCATTI DI VITA QUOTIDIANA
L’indagine fotografica del francese è la precisa conseguenza ai suoi lavori passati. Dal 2007, infatti, Gratacap ha condotto una riflessione fotografica su come rappresentare geopoliticamente il nord e il sud del mondo, in particolare attraverso le zone transitorie delle rotte migratorie nel Mediterraneo. L’analisi ha preso avvio dal centro di detenzione di Canet, vicino a Marsiglia, per poi spostarsi a Lampedusa e successivamente a Zarzis, città portuale del sud della Tunisia, divenuta ormai una città senza abitanti, perché è punto di partenza per l’approdo in Italia.
La permanenza di Gratacap a Choucha è stata consolidata dalla possibilità di offrire ai rifugiati corsi introduttivi alla fotografia all’interno di un progetto di volontariato con una ONG. Ciò gli ha permesso di comporre il suo reportage basandolo sull’idea di ritrarre la loro vita quotidiana in questa zona di temporanea esistenza. Come lui stesso ha affermato, la sua prima istanza è stata quella di parlare con i rifugiati, di dare sfogo alla loro necessità di comunicazione. Da questi confronti è emersa la volontà di analizzare l’ostilità del luogo, il suo abbandono, la perdita di identità sia della zona in sé che di chi la abita.
MIGRAZIONI METAFISICHE
Tale carattere nelle immagini fotografiche si è tradotto in una sensazione di metafisico che traspare dalla mancanza di punti di riferimenti geografici evidenti. Il paesaggio si disperde nel color sabbia del deserto e l’orizzonte è schiacciato dal colore lattiginoso e neutro del cielo. In questo Empire-Impero tutto appare sospeso e nulla sembra essere realmente tangibile, se non fosse per i corpi e i volti dei rifugiati. Il contrasto cromatico dei loro lisi indumenti riesce a distaccarli dal contesto, a creare delle fisionomie, delle presenze, seppur i loro volti non siano mai inquadrati. Chi è ritratto, infatti, ha il viso coperto o dai vestiti o da una giacca o dalle proprie mani. Sembrano non esistere, tanto da non riuscire a specchiarsi in un vetro. Ciò è dovuto alla non appartenenza dei soggetti al luogo e quindi nemmeno alla contemporaneità.
I rifugiati nelle loro fotografie sono entità, sono esseri che popolano un lembo di terra il cui sguardo, quando rintracciato è inespressivo, inerme, passivo. Ciò pone in luce la loro condizione di ostaggi di una situazione di transizione che sembra non aver termine. Gratacap, a riguardo, afferma che un rifugiato in un dialogo gli disse che loro sono caduti nel dimenticatoio già dopo un anno dalla morte di Gheddafi, avvenuta nell’ottobre 2011, in quanto il loro dramma non interessava più i media.
Le fotografie di Gratacap, dunque, si articolano su inquadrature strette, focalizzate su un luogo di vita creato dal nulla: una strada ricolma di sabbia sovraesposta alla luce e sottoesposta alla conoscenza. Qui trova il suo terreno di analisi la fotografia che nell’ottica del francese vuole documentare in maniera oggettiva, reale, viva, perché innanzitutto nata dal dialogo, dallo studio, dall’osservazione e non solo dalla necessità di scattare per proporre una verità. Guardando le fotografie di Gratacap rimane la consapevolezza di vedere veramente un presente di esistenza.
Davide Parpinel
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