Pino Boresta. Cosa significa essere artisti?
Chi è artista? Cosa fanno gli artisti? Cosa significa essere artisti? Dove sono gli artisti? Cosa pensano gli artisti? Che cosa pensano gli artisti di tutti questi extracomunitari? Un testo di Pino Boresta, su una performance ancora attualissima.
BREVE BOLLETTINO
- Intervento Urbano: non autorizzato.
- Città: Roma.
- Titolo dell’intervento: L.N.P. – Lavavetri Not Profit.
- Giorno dell’azione: 27 ottobre 2001.
- Orario: dalle ore 9,30 alle 12,30.
- Luogo: davanti al Carcere delle Mantellate, ai semafori situati all’incrocio tra Lungotevere Gianicolense e Ponte Mazzini.
- Performer: due, io e il mio amico Al.
- Materiali usati per la performance: due spazzole, un secchio, un panno, due magliette con le scritte Lavavetri a gratis e Lavavetri con offerta.
- Affluenza degli addetti ai lavori e pubblico dell’arte: scarsa ma attenta.
- Partecipazione della gente: tutta quella che circolava, e molto incuriosita.
- Impatto sociale dell’azione: nullo, ma il tempo mi ha dato ragione.
- Guadagnato: 40.000 lire, tutte devolute all’extracomunitario del Bangladesh Mo Mohshin Al Amin, alle quali ho aggiunto 50.000 lire di mio.
- Soddisfazione del mio nuovo amico musulmano: molta.
- Esperienza personale: enorme e a forte impatto emotivo.
- Documentazione: filmata e fotografica, e ora anche scritta.
- Scritti: articolo di Pablo Echaurren sulla rivista Carta qualche settimana prima dell’intervento.
- Giudizio globale sull’evento: positivo per ciò che mi concerne, ma giudicate voi.
I FATTI
Durante la performance L.N.P. – Lavavetri Not Profit eseguita dalle ore 9.30 alle 12.30 presso i semafori situati all’incrocio tra Lungotevere Gianicolense e Ponte Mazzini indossavo una maglietta con la scritta LAVAVETRI A GRATIS e il mio compagno extracomunitario un’altra con la scritta LAVAVETRI CON OFFERTA.
SCENARIO
Auto ferme al semaforo, mentre noi ci muovevamo tra queste in cerca di potenziali clienti disposti a farsi pulire il parabrezza. Le donne erano le più tolleranti, ma la maggior parte delle facce dietro quei parabrezza erano facce incazzate. Eh sì, perché tutti gli autisti sanno bene che il minimo accenno di un sorriso allo spazzolatore abusivo sarebbe stato interpretato come segnale di debolezza, dando il via libera (senza possibilità di scampo) all’azione di pulizia non richiesta. E allora eccoli lì tutti accessoriati di faccia ultraseria, una faccia di serie come se l’avessero acquistata insieme all’automobile. Facce impassibili, studiate, valutate e calibrate allo specchietto. Facce irritate, stizzite, nervose, imbronciate, arrabbiate. Facce incazzate: con noi, con gli altri, con se stessi, con il mondo intero. Ma lì c’eravamo noi, quindi il “vaffanculo” di ordinanza senza possibilità di replica ce lo cuccavamo noi. Mentre le appendici verbali che seguivano erano variabili: “Ma vai a lavorare”, “Ma torna a casa tua”, “Togliti dalle palle”, “Se mi sfiori il vetro ti rompo il culo”.
Coloro che invece, immediatamente, scoprivano la scritta sulla maglietta rimanevano interdetti, dimostrandosi più tolleranti. Taluni erano divertiti e qualcuno addirittura riconoscente per avergli stimolato e arricchito la giornata, arricchendo pure noi grazie alla loro generosità. Probabilmente questa situazione detournante li intrigava a tal punto di disporli al meglio pur di avere qualche informazione sulla curiosa iniziativa, ma noi eravamo sempre di poche parole, io per scelta, l’indiano per contratto. Cosa curiosa: anche alcuni motociclisti che non avevano usufruito del nostro servizio hanno voluto comunque lasciarci dei soldi: forse erano dei performer anche loro?
“Non posso nascondere che questa prova di vita alla quale mi sono sottoposto mi ha procurato un forte impatto emotivo superiore a quello da me preventivato. Infatti, credo di aver fatto una scorta di emozioni e umiliazioni che mi resterà utile per il resto della vita. Le peggiori mortificazioni avvenivano, più che da gesti e parole, da impercettibili espressioni del viso che in un istante ti annichilivano e avvilivano più di qualsiasi rimprovero. Nonostante nella mia vita sia incappato altre volte, volontariamente e involontariamente, in situazioni scomode ai margini della dignità, questa esperienza ha contribuito più di ogni altra ad arricchire la mia coscienza e affinare la mia sensibilità nei confronti del pensiero facile, spesso grottescamente condito da banali affermazioni, per questo penso che un’esperienza del genere non farebbe male a qualcuno dei nostri politici”. È quello che ho scritto nell’ottobre 2001 al mio amico Pablo Echaurren insieme al resoconto/racconto per l’intervento urbano che lui stesso aveva annunciato in un suo articolo sulla rivista Carta (n. 15 del 18/25 ottobre 2001) e in seguito apparso anche su vari siti Internet.
Ho dovuto aspettare sei anni tondi tondi perché il mio desiderio si realizzasse e vedere un vero politico in carne ossa calarsi nelle vesti di un lavavetri, anche se non è stato chi speravo io, quello che fa tutti i mestieri, avete capito no? Lo ha fatto un sottosegretario all’Economia, Paolo Cento, deputato dei Verdi che al semaforo di piazza San Giovanni in Laterano (a Roma) pulì il parabrezza a una decina di automobilisti per protestare contro i provvedimenti anti-lavavetri messi in atto a Firenze il 31 agosto 2007 dal sindaco di allora.
Come poi andò a finire non lo ricordo, ma ricordo che uno degli assessori del capoluogo toscano disse: “Questi lavavetri abusivi ti mettono direttamente la spugna sul parabrezza e a volte nascono discussioni e alterchi, che nel caso di donne sole in auto possono diventare pericolosi”, e per questo asserì che si era reso necessario tale provvedimento. Ma la mia esperienza diretta, di chi nei panni dell’altro ci si è messo, ha rilevato ben altro.
Bisogna smettere di ergersi a valorosi difensori delle donne solo per le banalità, bisogna sostenere le donne in battaglie ben più importanti e la cronaca di questi ultimi tempi ne è la prova lampante. Sono ben altre le entità da cui andrebbero protette le donne, più che da quei cattivoni dei lavavetri. Io uno di quei cattivoni l’ho conosciuto: si chiamava Mo Mohshin, l’ho incontrato al semaforo di via Ugo de Carolis all’incrocio con via Damiano Chiesa alla Balduina (un quartiere della Roma bene). L’ho arruolato la mattina stessa del giorno in cui avevo deciso di fare l’Intervento Urbano, dopo che l’altro extracomunitario con il quale avevo preso accordi una settimana prima non si era presentato all’appuntamento. Al Amin era arrivato da pochi giorni da Dhaka, sua città natale, e stava svolgendo il suo apprendistato al semaforo con un compagno più esperto. Al parlava un inglese stentato, indice del fatto che apparteneva a una casta sociale molto bassa, visto che in genere i cittadini dell’ex impero britannico (anche asiatico) parlano in genere un buon inglese.
Riuscii comunque, con l’aiuto del suo amico, a farmi capire, poiché quello che doveva fare era molto semplice, e cioè infilarsi una maglietta e pulire i vetri alle auto come già faceva, a dire il vero in maniera ancora inesperta. Amin ha accettato subito e di buon grado di partecipare all’azione urbana, che in realtà per lui era solo un lavoro. Il suo atteggiamento all’inizio della performance (e anche il mio) è stato piuttosto timoroso, ma con spirito d’animo e gioco di squadra abbiamo trovato la giusta e necessaria fiducia in noi e nelle nostre possibilità. Infatti, nonostante alcune scoraggianti umiliazioni, siamo riusciti a farci forza con semplici sguardi reciproci e a trovare il necessario coraggio per superare così tutte le difficoltà, e quando il nostro affiatamento diventò assoluto, niente e nessuno poté più fermarci. Mo Mohshin calmo e taciturno non parlava volentieri di se stesso né della sua numerosa famiglia, ma aveva una voglia di fare e imparare che avrebbero fatto felice qualsiasi datore di lavoro.
Al termine della nostra azione l’ho accompagnato a casa. Viveva in un appartamento alla Pineta Sacchetti (un quartiere popolare di Roma), insieme con altre quindici persone. Prima dell’addio ho preso dal portafoglio 50.000 lire, lui con un sorriso che gli illuminò il volto le aggiunse ai soldi guadagnati insieme e mi chiese se nei giorni seguenti avessi ancora avuto bisogno di lui. Io, non avendo il coraggio di confessargli la verità, gli risposi: “Forse!”. Prima di andar via avrei voluto abbracciarlo, ma non l’ho fatto. Non ci siamo mai più rivisti, e al semaforo, dove ci siamo conosciuti, non ho più visto né lui né il suo amico. Da allora, ogni volta che passo di lì non posso fare a meno di chiedermi: “Dove sarà andato a sfidare la vita, il mio amico musulmano?”. Ecco, essere artisti significa anche questo, assumere posizioni scomode, dire e fare quello che si ritiene più giusto nella certezza che servirà a qualcosa.
Pino Boresta
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