Hilla Becher. Storia di un incontro
Non credere ai libri, incontra gli artisti, persegui i tuoi obiettivi. Tre consigli dati da una delle maestre della fotografia e dell’insegnamento del Novecento, a margine di una mostra. Il racconto di un incontro di un quarto d’ora tra la grande fotografa e un giovane curatore.
Ricordo con vividezza l’incontro che ho avuto con Hilla Becher nel 2009 in occasione di una mostra avvenuta a Bologna presso il Museo Morandi, luogo concettualmente perfetto per l’approccio fotografico seriale dell’artista e del marito. Finita la conferenza stampa – Bernd era già venuto a mancare – approfittai della sue presenza per chiederle come fossero nate le Typologien e come si fossero sviluppate, dato che trovavo la genesi raccontata nei manuali sempre approssimativa.
Alla mia domanda ne seguì una sua: “Tu cosa fai?”. Risposi che ero giornalista e che avevo cominciato da poco a fare il curatore, era passato meno di un anno dalla prima mostra che avevo seguito. Mi sorprese la sua risposta, molto realista. “Non leggere i libri di storia, vai dagli artisti se sono ancora vivi e fatti raccontare il loro punto di vista”. Mi sorpresero le sue parole, ben più attente all’interlocutore che non a esporre i propri contenuti. Seguì una descrizione dei fatti molto diversa da ciò che i libri raccontano. Lei e il marito, infatti, avevano cominciato a fotografare edifici e architetture industriali quasi casualmente, durante i propri viaggi, semplicemente standardizzando tempi di esposizione (non possedevano un esposimetro professionale) e condizioni di ripresa. Era un modo per avere sempre risultati accettabili risparmiando sui materiali, che erano costosi; e anche l’uso del bianconero anziché il colore dipendeva dal fatto che era possibile occuparsi del processo con apparecchiature anche domestiche.
Rimasi stupito poi quando mi disse che l’idea che sta alla base delle Typologien era uscita solamente svariati anni dopo l’inizio della loro ricognizione. Infatti, contrariamente a quanto pomposamente troppe volte sbandierato, il concetto era nato a posteriori, quando si era rivelato necessario ordinare in archivio gli scatti realizzati. La conclusione del suo racconto fu per certi aspetti lapidaria: “Molta dell’arte concettuale nasce per caso, ma solo gli artisti te lo possono dire. Vai a conoscerli di persona”. Tale affermazione, che appuntai sulla Moleskine con minuzia, non smette mai da allora di brillarmi in testa: era un’osservazione antiretorica, un elemento di stimolo personale, o forse la reazione alla percezione del proprio lavoro come imprigionato dalle forzature teoriche messe in atto dal mondo della critica?
Seguì un suo invito, che trovai interessante perché mai ci eravamo visti prima e mai avremmo avuto la possibilità di vederci successivamente. “Sei giovane, fa tante mostre”. Un consiglio, o un monito forse, che nasce dall’idea che forma e qualità possono essere frutto del provare e riprovare, di un lavoro continuo e inesausto.
Non ho mai smesso di avvertire tutte le sue parole come una frustata personale – e, per certi aspetti, anche generazionale – che solo i grandi insegnanti ti possono dare, anche in un quarto d’ora. A quell’incontro con quella persona tanto generosa debbo molto di quello che ho fatto e molto di quello che farò.
Daniele Capra
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