Inpratica. Critica come fraternità (V): Cristiano De Gaetano
La “critica come fraternità” ha visto sfilare sinora Marta Roberti, Gian Maria Tosatti, Giuseppe Stampone e Paola Angelini. La nuova serie della rubrica Inpratica si arricchisce ora di una ulteriore tappa, con il minisaggio su Cristiano De Gaetano, scomparso nel 2013.
È come se ci fossimo dimenticati chi siamo,
Donald: esploratori, pionieri. Non dei guardiani.
Cooper in Interstellar (Christopher Nolan 2014)
Il buco bianco del vuoto richiede un’operazione
di ricognizione particolare.
Giuseppe Genna, Io sono (2015)
“Che cosa dobbiamo a ciò che è morto? ‘L’atto d’amore di ricordare un morto’, scrive Kierkegaard, ‘è l’atto d’amore più disinteressato, libero e fedele’. Ma certamente non il più facile. Il morto, infatti, non soltanto non chiede nulla, ma sembra fare di tutto per essere dimenticato. Proprio per questo, però, il morto è forse l’oggetto d’amore più esigente, rispetto al quale siamo sempre disarmati e inadempienti, in fuga e distratti” (Giorgio Agamben, Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri, in Nudità, nottetempo 2009, pp. 61-62).
Dopo l’eroina biopunk, il monaco, il Joker e l’accumulatrice di pitture e di figure, ecco il fratello morto che vive nell’aldilà; lo spettro radicale che ci guarda e che veglia su di noi da un altrove. Proprio perché non chiede nulla, questo spettro incombente esige attenzione, esige cure destinate a rimanere sempre e per sempre insufficienti: questo spettro ingombrante lascia attorno a sé – nell’arte italiana di questi anni e decenni – uno spazio, vuoto, che sarà sempre presente. E su cui occorre tornare a lavorare, a investire pensiero e attività.
Cristiano De Gaetano (Taranto, 1975-2013) è stato uno degli artisti più intelligenti e più selvaggiamente creativi di questo inizio XXI secolo: capace di costruire opere che permangono come nuclei radianti, radioattivi. Opere che funzionano come dispositivi aperti verso una direttrice diversa, differente, alternativa e sotterranea della produzione – e della ricezione – artistica del e nel presente, italiano e non: realizzate tra la fine degli Anni Novanta e l’inizio di questo nuovo secolo, costituiscono un annuncio, una prefigurazione, un presagio. Di qualcosa che potrebbe essere: “Lo stabile indifferenziato, l’essere che sta per assumere una configurazione […]. La soglia del vuoto […] è la vicenda stessa, è l’opera stessa – cioè il territorio immenso su e da cui grava qualcosa di stabile: l’incombenza” (Giuseppe Genna, Io sono, Il Saggiatore 2015, p. 312).
Nucleo oscuro pulsante radiante. Che continua a interrogarci, e a indicare all’arte e alla critica in maniera luminosamente oscura una strada possibile e percorribile. Prendete, per esempio, Collapse (2008): cera-pongo su strati di legno che dispone e ricompone un mondo di rovine, frammenti, scorie del tempo passato, che sta passando. Un mondo convincente, malinconicamente apocalittico, costruito e parte al tempo stesso di una costruzione ancora più grande, un universo partorito da una singola mente. E poi, lo scarto meraviglioso e sorprendente di morgan le fay III, dello stesso anno: qui l’effetto della cera-pongo è solo (solo!) mimato, perfettamente riprodotto; e questa faccia che non è una faccia, questo viso informe al confine esatto tra l’umano e l’inumano, questa identità che è tanto più incombente e presente quanto più si sporge verso “qualcos’altro” – assumendo di volta in volta e contemporaneamente le sembianze di un cartoon, di un mostro da film horror, di un mutante, di un riflesso irriconoscibile – è fatta di semplici acrilici su tela. Un essere simpatico e terrificante, perturbante e familiare: reale e irreale.
Invece i tre lavandini in ceramica di Untitled (2011) – e qui siamo già nei pressi della fine – compongono un monumento triste e grandioso alla caduta, al fallimento, alla sconfitta. Sulle ceramiche che caratterizzano l’opera di Cristiano De Gaetano nei suoi ultimi due anni (di cui riporto qui alcuni esempi), poco viste e dunque ancora in gran parte sconosciute, si apre un discorso ulteriore, che completa le premesse ma che le trasferisce al tempo stesso brillantemente su un piano diverso: per ora, c’è solo da dire che l’artista, attraverso questa riscoperta nutrita di sofferenza, di dubbio atroce, di percezione acutissima, di lucida “crudeltà”, ha toccato una sorgente, una zona nascosta rimossa segreta preziosa dell’arte italiana e occidentale che forse (con le condizioni giuste: le quali vanno però create e rifondate, non attese come dono dal cielo) potrà a sua volta allevare in modo fecondo le generazioni creative attuali e del futuro prossimo.
La fraternità dunque – intesa come concetto e come esperienza – è in grado di connettere in modo sperimentale non solo identità diverse e in apparenza lontane, ma anche differenti dimensioni spaziotemporali: la fraternità può, e molto probabilmente deve, esorbitare anche dai confini dell’esistenza e dell’umano (letteralmente, ‘trasumanar’: “Trasumanar significar per verba / non si porìa, però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba”, Dante, Paradiso, c. I, vv. 70-72), e posizionare l’esistenza stessa su un altro livello. Farla scivolare su quel livello, che ha indubbiamente moltissimo a che fare con il dono. Si scopre così, per esempio, che sequenze di opere e idee apparentemente autoconcluse e consegnate alla memoria o all’oblìo sono ancora perfettamente vivide e potenzialmente aperte, circuiti in attesa di terminazioni; mentre al tempo stesso altre ricerche e altri sistemi immaginali sono finiti irrimediabilmente su un binario morto, pur essendo ufficialmente adulti ancora nominalmente attivi: “…quel che lo spettro con la sua voce bianca argomenta è che, se tutte le città e le lingue d’Europa sopravvivono ormai come fantasmi, solo a chi avrà saputo di questi farsi intimo e familiare, ricompitarne e mandarne a mente le scarne parole e le pietre, potrà forse un giorno riaprirsi quel varco, in cui bruscamente la storia – la vita – adempie le sue promesse” (G. Agamben, op. cit., p. 65).
Christian Caliandro
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