Club to Club: a Torino è tempo di techno
Fifteen is the magic number per la 15esima edizione di Club To Club, il festival di musica e arti elettroniche, ormai punto di riferimento imprescindibile per orientarsi tra i mille rivoli delle musiche dell’oggi. Un gran bel modo per iniziare la settimana torinese dell’arte.
Nel 2000, quando l’associazione culturale Xplosiva dà vita al festival Club To Club, esce Kid A dei Radiohead, e si è giusto nel mezzo a quelle due esplosioni controllate che vanno sotto il nome di Peel Sessions 1 (1999) e Peel Sessions 2 (2000) a firma Autechre. Siamo in Inghilterra, e circa quindici sono gli artisti inglesi che Torino ospita nelle varie sedi del festival, che rafforza l’alleanza con il British Council: da Thom Yorke che presenta il suo recente album Tomorrow’s Modern Boxes al giovanissimo Jamie xx.
Siamo in Inghilterra, ma la techno è musica ormai decisamente global, come ha ampiamente dimostrato negli ultimi anni il caso Omar Souleyman, un agricoltore siriano di una cinquantina d’anni che, dapprima semplice intrattenitore da feste di matrimonio, si è visto catapultato a far ballare masse di hipster occidentali a ritmo di dabka debitamente elettrificata. Musica globale, ma con una geografia marchiata a fuoco da avamposti – leggasi: città, o città-stato – che sono ormai diventati prefissi utili a meglio circostanziare il macrogenere. Dici Jeff Mills e dirai Detroit-Techno, per esempio, ovvero “la fondazione della techno”, come ha giustamente scritto Christian Zingales, “l’innesto di funk nero ed electro bianco che genererà un florilegio di capolavori e una serie di mitologici profili autoriali”. È fra Detroit e Chicago, la patria della house, che si muove The Wizard, come viene prontamente ribattezzato Mills.
L’Europa, però, non se ne sta solamente ad ascoltare. È il club Tresor di Berlino, con la sua etichetta pronta a sfornare vinili, ad accogliere alcuni dei lavori più importanti degli Underground Resistance, organico variabile di bricoleur che spazza via gli ultimi detriti di un muro caduto solo qualche anno prima. Non è certo il concerto di Mstislav Rostropovich a ridisegnare le mappe di una città che, di fatto, rinasce dalle proprie ceneri. Sono, piuttosto, le centinaia e centinaia di club che spuntano come funghi a direzionare fiumane di esseri umani che si trovano come per caso in una metropoli che è il crocevia di viandanti di derivazione incerta.
L’asse Detroit-Berlino non ha intenzioni bellicose, perché a governarla è un feedback: l’arte del remix. Moritz Von Oswald e Thomas Fehlmann, loschi figuri provenienti dalla tossicissima scena electro-wave berlinese, si innamorano del ritmo negro che ascoltano sui dodici pollici dei vari Juan Atkins, Eddie Fowlkes, Mike Banks. Li corteggiano, corteggiano soprattutto quest’ultimo, a suon di b-side e riletture chirurgiche: insieme a Mark Ernestus, Moritz Von Oswald (stiamo parlando di Basic Channel, e scusate se è poco) fonda l’etichetta M – M di Maurizio, altro nomignolo che il produttore utilizza per dar sfogo alla sua creatività. L’alleanza è definitivamente sancita, incisa su dischi che faranno la storia.
Carl Craig, gli Orb e l’ingegnere del suono Ron Murphy, dub, techno e house, Detroit, Chicago e Berlino: la torre che (scrive ancora Zingales) confluisce “intorno a un vertice spigoloso carico di interrogativi” è quella di Babele, le lingue tutte e nessuna. È per questo che, a distanza di circa vent’anni, c’è chi cerca di mapparle, le infinite periferie della techno, fatte di luci artificiali e di bui pesti come un afterparty. Stiamo parlando di Steve Goodman (Kode 9), che – novello Walter Ruttmann e in maniera meno ingenua del Luciano Berio di Ritratto di Città – ha l’opportunità di muovere e far muovere Torino come fosse un grande plastico. È il progetto A Great Symphony for Torino, che non cessa certo di risuonare con le luci dell’alba, perché anche in questo caso, a festival finito, rimangono degli avamposti: colonnine che hanno registrato suoni e che, grazie alla tecnologia QR Code, li ritrasmetteranno alla bisogna. Musica di luoghi e di spazi, la techno, ma soprattutto musica di stati d’animo che si espandono e si contraggono di continuo, come i beat di un ritmo in quattro quarti. Chi la considera ancora una forma d’arte riponibile, di volta in volta, in una dj bag, fa ancora in tempo a ricredersi.
Vincenzo Santarcangelo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #28
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