Artisti da copertina. Giacomo Raffaelli
Classe 1988, un triennio di specializzazione in pianoforte jazz, esperienze nel teatro e una laurea in Fine Art Photography presso il Camberwell College of Arts a Londra, Giacomo Raffaelli riesamina “gli aspetti antropologici e collaterali della ricerca scientifica”. Come? Decostruendo materiale documentaristico e d’archivio con l’uso di tecnologie digitali e 3D modeling, collaborando con istituzioni scientifiche internazionali come il National Physical Laboratory di Londra o il Danish Institute of Fundamental Metrology di Copenhagen. L’obiettivo? Mettere in discussione – con installazioni, lecture, video e performance – la nostra relazione con le macchine, cercando di “svelare” le qualità umane degli oggetti. È lui l’autore della copertina di Artribune Magazine #28. Che potete trovare in anteprima a Torino per l’art week.
Che libri hai letto di recente?
Il terzo scimpanzé di Jared Diamond.
Che musica ascolti?
I primi cinque artisti sul mio iTunes: Agnes Obel, Alt-J, Andy Stott, Angel Olsen e Aphex Twin.
I luoghi che ti affascinano.
Quelli visti in movimento, tipo le città da un motorino e le montagne da una funivia.
Le pellicole più amate.
Gli unici film che mi sento di amare sono quelli che guardavo ripetutamente da bambino: Hook – Capitan Uncino, Superman 4 e Zanna Bianca.
Artisti (nel senso più ampio del termine) guida.
Gabriele Basilico, Cerith Wyn Evans, Hito Steyerl, Italo Calvino, Johann Sebastian Bach. Anche Gabriel Orozco, ma solo le fotografie.
Ciò che mi ha subito colpito nei tuoi lavori video è la maniacale attenzione al dettaglio, alla luce, alla fotografia, alle location, al sonoro. Hai un approccio quasi documentaristico ma con una resa formale eccellente.
Di documentaristico ho sicuramente l’approccio iniziale: osservo e registro quello che c’è a disposizione senza manipolazioni, dedicandomi soprattutto alla composizione dell’immagine. Poi arriva un momento in cui decostruisco i materiali prodotti, ad esempio con tecnologie di 3D modeling o attraverso un montaggio che volutamente limita l’accesso dello spettatore alle informazioni.
I tuoi video hanno quasi sempre un legame con la ricerca scientifica. Che rapporto hai con la scienza e a cosa t’interessa “dar forma”?
Della scienza m’interessano gli aspetti collaterali, i tratti più umani e utopici. Dal 2013 ho prodotto un corpus di lavori che indaga il processo di ridefinizione del prototipo del chilogrammo. Tra questi i video NPLone e With a Relative Uncertainty in cui il dato scientifico è ridotto al minimo per sondare invece la capacità dei prototipi di misura fondamentali d’incarnare il desiderio umano di misurazione assoluta. Oppure nel mio lavoro più recente, un’installazione site specific per la biblioteca dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri a Firenze, ho usato materiali visivi e sonori raccolti in un centro di ricerca sulle onde gravitazionali per esplorarne la dimensione percettiva e corporea.
Due parole chiave per il tuo lavoro: semplicità versus complessità.
È un rapporto piuttosto complicato al quale sto lentamente prendendo le misure. Da un lato c’è la mia attrazione per le immagini in sé, per come si comportano quando non hanno restrizioni. Dall’altro, un interesse profondamente concettuale per i significati, attraverso una ricerca che spesso esonda nei territori della fisica, dell’astronomia e della filosofia della scienza. Buona parte del mio processo creativo consiste nel costruire ponti per collegare queste due sponde.
La performance – la presenza umana – è un altro elemento importante. Penso a Quinto impatto, in cui un uomo interagisce con la proiezione di un video, ispirato al Cosmodromo di Bajkonur in Kazakistan, o a Forte di Pozzacchio.
Sono entrambi progetti realizzati nel 2013. In quel periodo ero interessato a collaborare con danzatori e performer, di conseguenza l’elemento umano nei miei lavori era molto forte. Le mie ultime opere invece ruotano attorno a strumenti e artefatti mediando la presenza umana, che rimane dunque al centro della mia pratica anche se non in termini corporei.
Partecipi spesso a lecture e simposi, alcuni di natura scientifica, che sono parte integrante della tua ricerca.
Un approccio dialettico è alla base di tutti i miei progetti, sia come strumento di ricerca che come formato di analisi critica, perciò raccolgo sempre volentieri le opportunità di conversazioni pubbliche. Il discorso è un mezzo che uso anche da un punto di vista produttivo. Ad esempio in Under Specified Conditions, un lavoro che comprende una lecture-performance e una pubblicazione, e in Non come la ragione, in cui ho creato un’opera attivando un processo di traduzione dei dialoghi intercorsi con un collezionista.
Hai avuto diverse esperienze all’estero, anche di residenze. Cosa ti hanno lasciato?
Dopo l’università a Londra ho avvertito il bisogno di mettermi alla prova in più contesti possibile, anche con progetti a breve termine. Credo che questa modalità abbia accelerato la crescita del mio lavoro. Ora invece sento la necessità di fermarmi un po’ e dedicarmi a produrre con una base più fissa.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
È una fotografia che ho scattato mesi fa in un ristorante. C’era questo piatto di spaghetti di porcellana che trovavo curioso. L’ho riguardata qualche volta e mi fa ridere perché non capisco se le conchiglie nel piatto siano cozze o vongole. Aspettavo l’occasione per poterla usare.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #28
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