Camminare sull’acqua. Intervista a Christo
Sul lago d’Iseo, Christo ci parla della sua ultima opera, che vedrà la luce dal 18 giugno al 3 luglio 2016. Dopo quarant’anni – e dopo la morte della sua compagna Jeanne-Claude – l’artista torna in Italia per realizzare una passeggiata sull’acqua: un pontile galleggiante coperto da 90mila mq di tela poliammidica color giallo dalia che collegherà Sulzano a Peschiera Maraglio, su Montisola, per poi proseguire fino a Sensole e circondare la piccola isola di San Paolo, di proprietà della famiglia Beretta.
La struttura temporanea che sta progettando Christo potrà ospitare 17.750 visitatori per volta. L’opera costerà circa 10 milioni di euro e, come gli altri progetti dell’artista, è stata finanziata grazie alla vendita di disegni preliminari e bozzetti. Germano Celant, project director di The Floating Piers, curerà una mostra antologica prevista per aprile 2016 al Museo di Santa Giulia di Brescia. Ecco cosa ci ha raccontato l’artista.
Da cosa è nata l’idea di creare una passerella sull’acqua?
L’idea di The Floating Piers si è manifestata per la prima volta nel 1971, quando cercammo di realizzarlo sul Rio de la Plata, in Argentina. Volevamo muovere la superficie piatta dell’acqua, superficie che in realtà è dinamica. L’idea nasce dall’antica relazione fra terra e acqua, dal loro contrasto, dal gioco tra la fluidità dell’acqua e l’immobilità della terra e dal modo di tradurlo nella struttura del progetto. C’è una mimesi tra la natura e il progetto che riflette e traduce i movimenti delle onde nelle dinamiche del tessuto.
Questo è uno dei progetti più tattili che abbiamo fatto. La cosa più importante, infatti, è che sia un progetto su cui poter camminare. È molto importante costringere le persone a guardare dove mettono i piedi, a fare attenzione. Una volta che i blocchi saranno uniti e appoggiati sull’acqua, verranno ricoperti di tessuto pieghettato per evitare il rischio di scivolare. L’esperienza della fluidità dell’acqua sotto i piedi è qualcosa di intraducibile, di magico. La relazione tra terra e acqua per Jeanne-Claude e me è sempre stata d’ispirazione. L’energia del movimento fluido dell’acqua contro la solidità della roccia apre una vasta gamma di possibilità. Sfortunatamente non è stato possibile realizzarlo prima, ma all’inizio degli Anni Settanta la tecnologia che abbiamo deciso di sfruttare ora non era ancora stata inventata.
Vuole condividere la sua esperienza?
No, non è questione di condivisione. Mi fa senz’altro piacere che la gente possa venire a visitare le mie opere, ma non voglio condividere nulla.
A proposito del colore: perché il giallo dalia?
Il giallo dalia è un colore particolarmente intenso, ma i nostri progetti non hanno mai un unico colore. Il paesaggio esterno continua a dare sfumature diverse al colore che abbiamo scelto. Per quanto riguarda The Floating Piers, quando il clima è secco il giallo diventa quasi un oro, mentre al mattino, quando c’è la massima umidità, diventa molto saturo e violento. I nostri progetti cambiano continuamente tonalità. Il colore non è scelto in sé e per sé. Il colore è scelto in base a ciò che circonda il progetto: l’acqua, la vegetazione, le rocce, il cielo. Un colore è sempre in relazione agli altri.
Lei ha detto che i suoi progetti non hanno uno scopo politico o sociale.
Questi progetti hanno le loro caratteristiche politiche e sociali, ma non sono fatti per questa ragione. L’opera d’arte ha a che fare con la realtà. Il progetto sviluppa la sua stessa identità nel processo di autorizzazione. La maggior parte dell’arte di oggi invece è rappresentazione. Tantissime gallerie ospitano illustrazioni delle cose, ma l’immagine di qualcosa non è la cosa.
Ci faccia un esempio.
Prendiamo il Wrapped Reichstag. Ci sono disegni, foto e film sul Reichstag… ma per quattordici giorni nel 1995 c’è stato il Reichstag, la cosa reale. L’arte è la cosa, non è sulla cosa. Nell’arte di oggi tutto è a proposito della cosa, ma l’arte è la vera acqua, il vero chilometro, i veri due chilometri, il vero vento, la vera umidità, la vera aridità, non è l’immagine dell’aridità o di qualsiasi altra cosa, è la cosa. La vera paura, non la sua rappresentazione.
Tutti i miei progetti coinvolgono questo genere di realtà, perché probabilmente a me piacciono le cose vere: ciò che è inesprimibile, che non può essere tradotto, spiegato o scritto. Tutti questi progetti sono estremamente esigenti, richiedono un grande sforzo fisico. Se non ti piace camminare per tre chilometri, se non ti piace il vento, o il sole, o l’aria secca o umida, non potrai mai capire. Ma a certa gente piace. A me piace.
Per lei l’arte dovrebbe essere libera, semplice e completamente inutile, come una sonata di Mozart o una poesia. Ma per costruire uno dei suoi progetti non bastano due persone, è necessario un notevole dispiegamento di forze umane ed economiche. Questo è tragico: un enorme impiego di risorse per una cosa…
…inutile. Sì, ma questo è un tipico discorso moralista [ride, N.d.R.]. Questa è la parte entusiasmante, non tragica. Oggi nessuno farebbe una cosa del genere, eccetto un artista. Ma non è una tragedia, è quello che in francese chiamano défi, una sfida. Questi progetti sfidano le persone. Pongono una sfida contro la miseria e la piccolezza che ci circonda. Gli esseri umani amano trovarsi davanti a qualcosa di tanto gratuito, inutile, superfluo e libero, ma è necessario avere coraggio. Spesso mi dicono che sono pazzo, perché non cerco di fare soldi. Ogni progetto fagocita tutti i fondi raccolti, ma può esistere solo perché io credo in quella libertà assoluta di cui ha bisogno l’uomo e che è sua parte integrante: fare cose senza ragione. Perché dovrei avere sempre un motivo per fare qualcosa? È questa la vera essenza di tutto il mio lavoro. Per cinquant’anni abbiamo fatto progetti che non esistono più, ma che hanno rappresentato un enorme bisogno fisico.
Potremmo definirla la necessità dell’innecessario?
No. Io sento che ne ho bisogno, come un alcolizzato. È necessario per me. È per questo che mi dà tanta energia, perché mi rende libero. Ma la libertà è molto pericolosa: i soldi e i fondi per realizzare le opere non cadono dal cielo, io ho lavorato duro per averli. Disegno, cerco di vendere le vecchie opere per pagare le nuove, ma cerco tenacemente di difendere la mia libertà. È per questo che le mie creazioni hanno un copyright.
Perché?
Perché nessuno le usi a fini commerciali. Dobbiamo difendere la libertà del progetto.
Quando lavora per ottenere le autorizzazioni, che livello di compromesso accetta?
Nessun compromesso. Per quanto riguarda i lavori sul paesaggio, se ci sono dei compromessi da fare decido di cambiare luogo. Per esempio, il progetto Wrapped Coast non era stato disegnato per l’Australia, ma per la California. A volte però non ci sono alternative: il Reichstag è il Reichstag, Central Park è Central Park, non si possono spostare, quindi se non si riesce a ottenere l’autorizzazione si è costretti ad abbandonare l’idea.
I suoi progetti hanno lo scopo di creare meraviglia?
Io non voglio stupire. Ovviamente questi progetti sono bizzarri, ma sono anche amichevoli, attraenti, ti fanno venire voglia di toccarli. Quando avvolgemmo il Reichstag, centinaia di persone ci camminavano attorno allungando la mano per toccarne il tessuto. A Milano nessuno cammina per la strada accarezzando i palazzi. I nostri progetti sono molto sensuali. Quella che si crea tra te e l’opera è un’attrazione chimica. È molto difficile anticipare le conseguenze che avrà il progetto sul territorio che lo ospita, le relazioni che allaccerà con gli elementi circostanti. Certo, ci può essere anche una parte filosofica, ma i nostri progetti sono soprattutto fisici, sviluppano vere e proprie relazioni con le cose, è questo il grande piacere che mi dà creare queste opere.
Lucia Brandoli Bousquet
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati