Artbonus. Ecco perché non funziona come dovrebbe
Se volessimo riassumere gli interventi di questo esecutivo nel campo della cultura in tre parole, riusciremmo a farlo senza alcun tipo di difficoltà: Artbonus, Ebook e SuperManager. È il pregio della twitteconomy. Ma qualcosa non va…
Ora che sappiamo che i supermanager saranno anche super ma non certo dei manager, che l’ebook al 4% era una mossa per evitare che con il cambio di imputabilità fiscale dal Paese di residenza del dealer (tra tutti Amazon, in Lussemburgo) al Paese in cui è avvenuto l’acquisto ci fosse un aumento incondizionato su tutti i prezzi dei titoli, non resta che vedere cosa ci sia di buono, e di cattivo, nell’Artbonus.
I MERITI DELL’ARTBONUS
I meriti dell’Artbonus sono molteplici, soprattutto sul profilo politico: in primo luogo con l’Artbonus è stato finalmente dichiarato che l’enorme patrimonio culturale materiale che l’Italia ha ereditato non può semplicemente essere lasciato lì, a perdere pezzi e valore, ma ha bisogno di ristrutturazioni, di manutenzione, in una parola, di fondi. Ciò che è ancora più importante sotto questo profilo è che, con l’Artbonus, lo Stato sventola la bandiera bianca sul fronte della gestione dei beni storico e artistici, riconoscendo implicitamente la mala gestio dei finanziamenti a pioggia, la poca valorizzazione del nostro tessuto storico e la necessità di avvalersi dell’aiuto del privato. Ora, il fatto che lo si faccia con mirabile dialettica (“Io, Matteo Renzi, vi concedo finalmente di fare ciò che voglio facciate”) non è affatto un demerito, ma un’abilità necessaria per poter governare, e questo quindi segna un altro punto a favore.
Altro merito del decreto è quello, come già più volte è stato ripetuto, di portare all’attenzione pubblica il discorso sulla conservazione dei beni culturali e sulla loro valorizzazione, cosa non da poco dopo anni in cui la parola ‘cultura’ era stata quasi bandita dal discorso pubblico non specializzato. E ancora: l’Artbonus ha costituito una forte spinta per le pubbliche amministrazioni, invogliate attraverso il meccanismo tipico del premio a stabilire e preventivare interventi manutentivi di quello che da patrimonio inestimabile era divenuto appendice inestimata, presente sul proprio territorio. Anche questo è un merito forte, perché misurare e monitorare sono le uniche vie possibili per una spinta alla crescita.
LA VERIFICA DEI FATTI
Questo Artbonus ha anche il merito di aver raccolto dei fondi, anche se pochi rispetto a quelli richiesti. E qui il discorso cambia, perché se è vero che ci sono stati aspetti positivi, sicuramente ce ne sono di migliorabili, e questo lo dimostrano i dati e le evidenze, in una parola: i fatti.
Fatto n° 1: al 3 novembre 2015, la lista degli interventi proposti dalle pubbliche amministrazioni si attesta a quota 221 e gli interventi che non hanno ricevuto alcun tipo di contributo da parte del privato ammontano a 125, quasi il 60%.
Fatto n° 2: Rispetto al costo degli interventi complessivi, ad oggi pari a € 476.881.363,38, è stato erogato un totale di € 38.519.620,76. In pratica, meno del 10%.
Fatto n° 3: Gli interventi completamente finanziati da privati sono stati fino ad oggi 3 su 225. Vale a dire l’1,36% del totale (escludendo dal conteggio il caso di Novi di Modena che sul sito dell’Artbonus dichiara un costo dell’intervento pari a € 0,00 e un contributo di € 1.150,00, ma sarà un errore di caricamento).
Fatto n° 4: Questi tre interventi, aggregati, avevano un costo totale di € 101.937,18, quindi di certo non quelli più costosi per lo Stato.
Fatto n° 5 (forse il più importante): i “mecenati” che hanno deciso di rendere pubblico il proprio nome sono in tutto 21. Di questi, si contano 3 persone fisiche, e solo 18 persone giuridiche di cui 3 Fondazioni (Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, Fondazione della Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata, Fondazione di Cassa di Risparmio di Saluzzo), un operatore assicurativo (Generali), due istituti di credito (Banca Passadore&C, Banca Popolare di Bergamo) e due società a totale o prevalente capitale pubblico (Interporto di Bologna e Tper). In tutto, dunque, le persone giuridiche di natura sostanzialmente privata (imprese) che hanno deciso di pubblicare la loro qualità di mecenate sono 10 (tra associazioni, cooperative e imprese).
CHI SONO ALLORA I MECENATI?
Dato che la probabilità che un’impresa decida di erogare fondi volendo rimanere completamente nell’anonimato è veramente esigua, si deduce che la maggior parte delle erogazioni provengono dai cittadini, i quali decidono per filantropia di aiutare lo Stato, cui corrispondono già uno dei contributi fiscali più elevati in Europa, i cui ritorni in termini di servizi erogati spesso non rispondono alle esigenze della comunità.
Da notare che, sinora, nell’esporre il dato negativo sono stati valutati soltanto gli effetti dell’Artbonus e quindi, sostanzialmente, queste valutazioni emergono direttamente dalla comunità cui era ed è principalmente rivolto lo strumento. Le imprese, infatti, costituiscono nel nostro Paese una ricchezza importante sia in termini culturali che in termini di capitali, e la scarsa adozione da parte di questo tessuto della società dovrebbe far riflettere chi governa.
PERCHÉ L’ARTBONUS NON PIACE ALLE IMPRESE
Come recentemente asserito da Fazio Segantini, presidente dell’Unione Nazionale dei Giovani Commercialisti ed Esperti Contabili, e come facilmente intuibile dai fatti, l’Artbonus non è così allettante per le imprese come lo è per le persone fisiche. Non potendo disporre dei dati necessari per poterlo asserire con certezza, rimaniamo nell’alveo delle ipotesi, ma sostanzialmente sono tre i motivi per cui quest’artbonus è piaciuto così poco.
Un motivo di carattere culturale-congiunturale: vale a dire le imprese non sono interessate a questo tipo di iniziativa perché, nel tempo, il mondo privato ha erogato già abbastanza fondi a tutte le iniziative di stampo culturale senza poi venire mai veramente rappresentato e, dato il momento storico di contrazione economica di cui soltanto parzialmente si vede la fine, preferisce fornire fondi a iniziative di altra natura.
Un motivo di tipo culturale-istituzionale: per quanto tutti ormai lo ripetano fino alla nausea, il fundraising non si può basare sul semplice fatto di portare avanti iniziative di interesse comune. Forse le pubbliche amministrazioni, oltre a caricare le proprie richieste sul sito, avrebbero potuto prendere spunto dal modello del crowdfunding avanzato.
Un motivo di tipo culturale-tecnico: con le aliquote da cui è composto, l’Artbonus non offre alle imprese molto in più della sponsorizzazione, rispetto alla quale offre molto in meno: la visibilità. Una soluzione efficiente sarebbe quella di riuscire a valutare il ROI dell’erogazione stabilendo un livello minimo oltre il quale l’erogazione è sponsorizzazione e sotto il quale è filantropia. O costruire un Artbonus diverso. Ma dato che chi costruisce le leggi non è uno sprovveduto, resta da capire quale sia il motivo reale per cui l’Artbonus è stato costruito così. Pensando a come siano differenziate le aliquote fiscali nell’arte in Italia, con uno spiccato favoritismo verso la persona fisica, allora non resta che pensare che queste aliquote rispettino ancora una mentalità che vuole l’arte, la cultura staccata e distanziata dal mondo delle imprese, che se vogliono fregiarsi dell’orpello culturale devono pagare di più.
La politica, quella vera, si gioca sui margini percentuali, sulle discipline fiscali. Ma dato che gli italiani queste cose le trovano noiose, allora è meglio inventarsi slogan che restano bene in mente. Poca fatica e massimo risultato. È questo l’unico approccio economico convincente mostrato sinora nel comparto culturale.
Stefano Monti
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