Maguy Marin e Samuel Beckett danzano insieme
L’undicesima edizione di Vie Festival ha ospitato due spettacoli della coreografa francese Maguy Marin: il suo più recente BiT e, due giorni dopo, il mitico May B. Alcune note su un incontro fra giganti.
Quando si dice: le buone combinazioni. Il duplice omaggio che Vie Festival 2015 ha tributato a Maguy Marin si è aperto con il suo più recente spettacolo, ammaliante e allegorico, BiT, a proporre un’idea di danza a tratti alternata e a tratti intrecciata alla vita, costruita per reiterazione di semplici coreografie eseguite con asciutta maestria da tre danzatrici e tre danzatori. Di più, rispetto a BiT, non diciamo: su queste stesse pagine ne ha scritto con lucida competenza, un paio di mesi fa, Simone Azzoni.
La seconda parte del dittico, a Vie Festival, è lo spettacolo-mito della coreografa francese, May B, un caposaldo assoluto della nouvelle danse, debuttato nel 1981 e da allora impegnato in una pressoché ininterrotta tournée mondiale.
“Questa pièce ispirata a Beckett, il cui lavoro pone in contraddizione il movimento e l’atmosfera teatrale con l’estetica di una performance di danza”, scriveva Maguy Marin, “ci ha permesso di porre le basi per tradurre alcuni dei nostri gesti fra i più intimi, nascosti e ignorati. Quando i personaggi di Beckett non aspirano ad altro che all’immobilità non riescono a non muoversi; poco o molto ma si muovono”.
È evidente una profonda affinità tra la danzatrice e coreografa nata a Toulouse e il drammaturgo irlandese, innanzitutto manifesta nella comune necessità di mettere in crisi i codici della disciplina che frequentano con maggiore assiduità. Samuel Beckett 31enne scriveva: “Il linguaggio sarà usato al meglio laddove sarà maltrattato con la massima efficienza. Siccome non possiamo eliminare il linguaggio, dovremmo almeno non tralasciare nulla che possa contribuire a farlo cadere in discredito. Farvi un foro dopo l’altro finché comincia a filtrare ciò che si cela oltre di esso, si tratti di qualcosa o di nulla”.
Maguy Marin in May B mette in scena dieci figure che, con il volto coperto da uno spesso strato di gesso bianco, si muovono compatte e sbilenche, attraversando il grande palco vuoto su musiche di Franz Schubert, Gilles de Binche e Gavin Bryars: ben lontane dall’incarnare un’idea di arte virtuosamente impegnata nella “imitazione della bella natura”, per dirla con Charles Batteux, sono sagome la cui grana fa perdere loro, progressivamente, il valore di personaggi per assumere l’efficacia di immagini scultoree. O, ancor meglio, di pure essenze: fantasmi che “sprigionano la forza, l’energia inaudita delle detonazioni”, come ebbe a dire Gilles Deleuze in merito alle figure del teatro di Beckett.
In parallelo all’algido “itinerario verso lo zero” percorso dal celebre irlandese, la coreografia di Marin è asciutta, finanche laconica: piccoli passi strisciati, minimi piegamenti del busto in sincrono, brevi espirazioni sonore.
La struttura di May B richiama in maniera sorprendente Breath, opera di Samuel Beckett del 1969. In essa è evocata l’intera vicenda umana, dalla nascita alla morte, condensando in appena 35 secondi (40 nella versione francese) una quantità di temi teologico-filosofici profondamente umani: Breath (e a suo modo anche May B) si apre con un quadro di desolazione nella semioscurità, per poi dare spazio a una inspirazione in sincrono al progressivo aumento dell’intensità della luce, con successivo andare verso il buio contestuale a una sonora espirazione. Poi un flebile grido e il silenzio.
Ultima affinità: la comune dialettica fra presenza e assenza di figure post-(o iper) umane, solitarie e al contempo solidali, malinconiche ma anche buffe. Che attraverso un anti-naturalismo estremamente formalizzato e solido, profondamente ci parlano di noi. Come montagne, ci vengono incontro.
Michele Pascarella
www.viefestivalmodena.com
www.compagnie-maguy-marin.fr
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