Carnet d’architecture. Bruno Di Marino
Nuovo appuntamento con la rubrica Carnet d’architecture. A condurci in viaggio è Bruno Di Marino, docente di mass media, curatore e storico dell’immagine in movimento. Che ci parla del videoclip musicale come genere urbano: dagli U2 ai REM, da Bjork ad Alicia Keys.
LUOGHI (RITMICI) COMUNI
Il videoclip musicale nasce come genere urbano. È pur vero che, se si facesse una classificazione delle location utilizzate nei music video dalla nascita ufficiale (ovvero il 1981, data di inizio delle trasmissioni di MTV) fino ad oggi, magari verrebbe fuori che luoghi non meno ricorrenti sono scogliere, campagne, deserti, foreste e quant’altro. Eppure è innegabile che il paesaggio metropolitano domini all’interno di una forma audiovisiva sviluppatasi nell’era della post-modernità, con tutto ciò che ha comportato in termini di linguaggio.
La città e le sue architetture sono già di per sé un elemento narrativo, laddove gran parte dei videoclip non si basano su un plot, su un racconto, ma sono piuttosto concettuali e associativi; lavorano cioè su immagini, situazioni, azioni. E sicuramente, pensando ad esempio al musical – genere cinematografico che resta uno dei punti di riferimento della videomusica – i classici promo coreografici se non si svolgono in interni, hanno le strade della metropoli come ambientazione principale. Dunque, la performance all’interno della scena urbana è una costante di diversi lavori, soprattutto recenti.
LA SCENA URBANA E IL VIDEOCLIP MUSICALE
In un’ideale carrellata di videomusica a sfondo urbano, affiorano alla mente, in modo frammentario e caotico, una serie di sequenze che hanno segnato l’immaginario collettivo. A partire dai tetti: quanti sono i video musicali girati in cima agli edifici, spazio circoscritto che, metonimicamente, rimanda all’intera metropoli e rende visibile il suo skyline?
Il modello originario non è un videoclip, ma il concerto dei Beatles filmato nel 1969 sul tetto della Apple Records, per l’uscita dell’album Let it Be con cui terminarono gloriosamente la loro carriera. Da quel momento suonare sui tetti cittadini è diventato quasi un “luogo comune”: pensiamo agli U2 i quali copiarono l’idea di Lennon & Co. suonando nel 1987 su un palazzo di Los Angeles e girando, quindi, in tempo reale, il videoclip di Where the Streets Have No Name, diretto da Meiert Avis (nel 2009 hanno replicato quella performance presentando sul tetto della BBC il loro nuovo album).
Citando qualche esempio italiano recente, pensiamo ad Anema e core (2008) con Pino Daniele e soci che suonano sulla terrazza del Jolly Hotel di Napoli filmati dall’elicottero e, più di recente, J-AX e Il Cile che eseguono Maria Salvador (2015, regia The Astronauts) in un unico piano-sequenza su un anonimo tetto milanese.
VEDUTE AEREE E ALTRE PROSPETTIVE
La veduta aerea è la visuale privilegiata da cui filmare la metropoli, abbracciandola in tutta la sua interezza; per citare video degli ultimi anni basta andarsi a vedere Empire State of Mind (2009) di Hype Willams per Jay-Z e Alicia Keys, Blue (2012) di James Franco per i REM o Hurricane (2013) di Bartholomew Cubbins per i 30 Seconds to Mars.
Ma ci sono altri modi, forse più originali e non meno “mobili” per rendere la città protagonista: Bjork che esegue il suo Big Time Sensuality (1993, regia Stephane Sednaoui) su un camion con rimorchio (in pratica un palco itinerante) che attraversa le strade di New York.
Di attraversamenti, esplorazioni, vagabondaggi, derive quasi debordiane in giro per le città, è piena la videomusica. Pharrell Williams in Happy (2013, regia We Are from L.A.) – che ha il record di lunghezza, infatti dura 24 ore – ci fa circumnavigare la sua Los Angeles, cantando il brano per strada filmato con un travelling all’indietro, ma soprattutto lasciando il posto a decine di altre persone che fanno il playback riprese in tutti i diversi quartieri.
L’IMMAGINARIO URBANO
L’immaginario urbano svolge un ruolo importante nella videografia di diversi registi, da Spike Jonze (Sabotage) a David Fincher (Bad Girl, Express Yourself), da Chris Cunningham (Come to Daddy) a Michel Gondry: nella sterminata videografia di quest’ultimo c’è sempre una città artificiale, ricostruita in teatro di posa, sfondo metamorfico ed escheriano in cui creare illusioni prospettiche e continui spostamenti dalla bidimensionalità alla tridimensionalità (da Protection a Bachelorette, da Sugar Water a Let Forever Be).
In altri casi, Gondry rovescia i fattori: non porta la città nella finzione dello studio, ma trasforma la metropoli autentica in un set surreale, come la piazzetta parigina di Come into my World (2003) di Kyle Minogue o la Londra di The Hardest Button to Button (2003) dei White Strips, nelle cui strade, stazioni del metro, parchi, il regista moltiplica e anima amplificatori e batterie, marcando il territorio di “segni” musicali.
LA CITTÀ COME SFONDO
Non è facile valutare come e quanto sia cambiata la rappresentazione della città dai video degli Anni Ottanta a quelli odierni. Sicuramente la “riscoperta” di Metropolis, rimusicato da Moroder nel 1984 e collegato a una serie di clip tra cui Radio Ga Ga dei Queen, ha avuto una notevole influenza sull’immaginario metropolitano, non solo di quel decennio ma perfino del successivo. Ad esempio uno dei video più belli in assoluto è Behind (1995, regia Marcus Nispel) per Elton John, fusione tra il film di Lang e il wendersiano Il cielo sopra Berlino, combina insieme Londra e New York, in un’orgia di stili architettonici diversi, ancora una volta dalla prospettiva aerea.
Ma è difficile rintracciare nella gran parte dei video musicali, una vera riflessione sull’architettura. La città resta uno sfondo, una scenografia, quasi mai, cioè, diventa elemento drammaturgico vero e proprio, al massimo – come può avvenire anche in clip apparentemente “minori” (Heart Failed, 2000, di Mike Tompkins per i Saint Etienne) – elabora un’idea di spazio.
Forse ci vorrebbero più videomaker-architetti per avere music video che sappiano articolare un discorso sui mutamenti urbanistici della nostra società.
Bruno Di Marino
“Carnet d’architecture” è una rubrica a cura di Emilia Giorgi
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