Sul XXI secolo. In risposta a Gian Maria Tosatti
Ogni racconto dell’apocalisse è in realtà, per forza di cose (semplicemente: perché c’è, ancora e sempre, uno sguardo umano a elaborare questo racconto per qualche altro sguardo, passato presente futuro) una post-apocalisse. Si tratta cioè di una transizione: da un’epoca all’altra, da uno stato della realtà all’altro, da un sistema di valori all’altro. Immergetevi in questa riflessione: perché anche sotto Natale si può pensare!
Tutto è come precipitato in questo
momento di pace carica e sporca.
Pier Paolo Pasolini, L’odore dell’India (1962)
Per fare un mondo non bastano
dei semplici atomi. Ci vuole un clinamen.
Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa (1986)
L’articolo come al solito profondo e stimolante di Gian Maria Tosatti sollecita una risposta, che volentieri qui comincio a esporre per sommi capi. La premessa – che condivido pienamente – è che stiamo vivendo, non da oggi, una fine – la fine dell’Occidente, di un modello culturale, ideologico, sociale, politico. Ma, appunto, si tratta di una fine: e non della fine. E come ci insegna il modulo narrativo della fantascienza (ah, quanto poco praticato conosciuto esperito in Italia! Uno dei posti peraltro più fantascientifici del pianeta…) ogni conclusione racchiude un nuovo inizio, la partenza di un’altra vicenda: quasi nessun dispositivo è ricco infatti di sviluppi potenziali come quello apocalittico. Ogni racconto dell’apocalisse è in realtà, per forza di cose (semplicemente: perché c’è, ancora e sempre, uno sguardo umano a elaborare questo racconto per qualche altro sguardo, passato presente futuro) una post-apocalisse. Si tratta cioè di una transizione: da un’epoca all’altra, da uno stato della realtà all’altro, da un sistema di valori all’altro.
Scrive Gian Maria: “Una natura che lì è metaforica, ma che è nei fatti la stessa natura umana, che cambia, si adatta, dimentica finanche se stessa. A guardarlo succedere, quasi immune alla mutazione, è ancora una volta lui, quella figura odiosa in ogni tempo, un Tiresia teso tra l’orrore della preveggenza e il dolore della rimembranza”. Il tema è quello della mutazione che stiamo vivendo, che trasforma in profondità i modi di interpretare la realtà, di vivere collettivamente e individualmente, di concepire questa stessa esistenza e i suoi presupposti. Personalmente, non credo che un artista o un intellettuale possa essere “quasi immune dalla mutazione”: la possiamo interpretare, la possiamo analizzare, la possiamo criticare, ci possiamo persino ribellare ad essa con tutte le nostre forze, ma non possiamo fare a meno di viverla, di esperirla.
Si pone poi un problema enorme di traduzione. E La tradizione è sempre e comunque una traduzione: “Ecco, morta la nostra civiltà sarà davvero quando non potrà più essere compresa da noi che ne siamo gli eredi (…) quando (…) non riusciremo più a leggere tutto il resto del linguaggio che sta oltre le parole, quando il nostro accento sarà diventato marcato, un accento di paese, di una civiltà divenuta ormai marginale, sepolta da un altro impero il cui treno sembra già partito e destinato a travolgere ogni cosa che incontrerà. Sì, a metterla per iscritto sembra già l’immagine del presente, ma se anche lo fosse non vuol dire che sia l’ultimo capitolo del romanzo. Che se i poeti devono, per loro natura e per dovere, andare contro la Storia, non è detto che la storia non sia in grado di farsi fermare, di farsi riavvolgere e di ricominciare in un’altra direzione senza perdere il suo bagaglio di identità, senza dover passare per la tabula rasa.”
Il modo migliore cioè per tramandare il cosiddetto “patrimonio” immateriale, per scongiurare la “perdita di identità” è quello di tradurlo nei termini nuovi, nella nuova lingua. Rendersi comprensibili ed efficaci, cioè, senza per questo diminuire il livello di complessità e di umanità: è l’operazione più difficile, ma anche quella più interessante (e quella che caratterizza i nodi fondamentali della storia culturale). Dice, “il Rinascimento che strappava un rinnovato orizzonte umano al buio del medioevo”. Ho capito. Ma il medioevo non è stato poi così buio, intessuto com’è di “rinascenze”: il mondo antico, con i suoi oggetti e le sue idee, non sarebbe sopravvissuto senza i riusi di generazioni successive disposte a distorcerlo, a montarlo con altre tensioni interpretative e altre lingue. A tradirlo.
Per non perdere l’identità, occorre sempre essere disposti a fonderla, cederla, ad aprirsi all’Altro e a identificarsi con esso: l’assimilazione della “barbarie” procede in entrambi i sensi. È quel punto di vista l’unico che riattiva e vivifica una civiltà morta o morente. Il contesto in cui ci muoviamo e in cui siamo immersi si sostanzia invece proprio dell’ostilità feroce alla possibilità stessa di lasciarsi trasformare dagli oggetti culturali e ancor più dalle idee – che cosa di maggiormente ineffabile, inafferrabile eppure potente? –, di lasciarsi cambiare internamente; alla possibilità che la nostra identità personale, e persino quella collettiva, non siano monolitiche, date una volta per tutte e immobili, fisse, determinate, ma soggette a continua mutazione. Che anzi l’identità sia questa mutazione, questo movimento (un’idea sempre più percepita, a livello diffuso, come ‘terrificante’). Detto questo, credo fermamente che arte e cultura abbiano davvero la capacità di trasformare in profondità – in senso positivo così come negativo, ça va sans dire – non solo i costumi, ma i cervelli degli individui. L’immaginario culturale è l’infrastruttura psichica di una società: esso è in grado di illuminare tutti gli altri settori (politica, economia, costume), per il semplice fatto che influenza e irradia ogni aspetto dell’esistenza individuale e collettiva. L’immaginario culturale è la forma che assume l’atmosfera mentale di un determinato periodo, e che a sua volta influenza comportamenti idee scelte.
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“Se un poeta marcia contro la Storia che quel treno rappresenta io sono, coi poeti, a terra, perché il mio lavoro è assicurarmi che quando i bambini saranno diventati adulti non trovino tutto distrutto, ma abbiano ancora salvi gli archetipi, abbiano ancora l’Orestea, per potersi ancora comprendere, attraverso di essa, per non essere nati morti”: bene, ma come fare a ‘salvare gli archetipi’, a renderli e rendersi ancora comprensibili? (Perché, se rimangono così come sono, il rischio paventato da Pasolini in Una disperata vitalità c’era e rimane…) Traghettandoli, appunto, nel XXI secolo. Occorre per questo lasciarsi tutto alle spalle, abbandonare schemi e sovrastrutture, condizionamenti e codici comportamentali. E occorre per questo immergersi, e al tempo stesso sporgersi continuamente nel e dal magma: “esercitando una mitologia informe a tal punto da sembrare rozza e ossessa, allucinata, minacciosa, secondo i nostri modi psicologici; ma, in realtà, costante e illimitata, laboriosa e labirintica, gestante e cosmica, come un meccanismo morfologico dell’immaginazione in tumulto, allo stato fluido, come atlante disabitato delle risonanze impervie. Homo hoc fecit! Il gesto del braccio del polso della mano produce il simbolo, riconduce l’essenza istantanea della vita” (Emilio Villa, La vita dell’immaginazione, ne L’arte dell’uomo primordiale, Abscondita, Milano 2005, p. 59).
Informe; immaginazione in tumulto; simbolo; l’essenza istantanea della vita.
Il “nuovo inizio”, posizionato dopo la fine acclarata del precedente modello, possiede per esempio la capacità di interpretare concretamente la precarietà non solo e non semplicemente come disgrazia, come umiliazione collettiva, ma come una nuova, radicale ‘disposizione d’animo’ nei confronti dell’esistenza (individuale e collettiva), e della realtà sociale che ci circonda. Vale a dire, le nuove opere che il posto-Italia comincia a far intravedere incarnano e riflettono per me un intero, nuovo sistema di valori in grado di orientare scelte, comportamenti, stili di vita: in questi casi (rari, per ora) è come vedere una microutopia – perfettamente funzionale, realistica – in azione. Questo sistema di valori prescinde totalmente da quello “in vigore” attualmente, condiviso e comune (quello, per intenderci, veicolato dai nostri media, dalla nostra politica, dal nostro linguaggio pubblico): non si oppone ad esso, ma piuttosto “scava” al suo interno una dimensione esistenziale alternativa. È la vita, invece della morte – con il suo corollario di metafore funebri e lugubri.
Quali sono allora questi valori (quelli, cioè, in cui si sostanzia questo XXI secolo, e quelli che anche tu Gian Maria so che condividi pienamente)? Per il momento: crescita organica, costante; cura per gli altri, per le cose e per la memoria; costruzione paziente e laboriosa di comunità; mentalità collaborativa (la fraternità); responsabilità e disposizione ‘morale’ verso l’arte e la creatività; una differente percezione del tempo e della storia, decisamente orientata al futuro; attenzione al territorio, al contesto di riferimento.
Il nuovo inizio allora consiste nel cominciare a sostituire un sistema di valori ‘vitale’ e vivido, umano, a un altro: salvando attraverso di esso questa fondamentale umanità, ciò che dell’Occidente – della sua cultura e della sua civiltà – merita di sopravvivere verrà traghettato e arricchito, non mortificato, dal contatto fecondo con il nuovo mondo.
Christian Caliandro
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