Mid-career alla riscossa. Guido Strazza
Anche Guido Strazza, nonostante settant’anni di ricerca alle spalle e un’intensa esperienza in Italia e all’estero, è un nome ormai defilato del sistema dell’arte nostrano. È il segno il nucleo fondante della sua ricerca, che si sviluppa attraverso una rigorosa attività pittorica e calcografica. “Tutti dicono che sono il primo incisore italiano, ma non certo per il mercato. Per il mercato sono l’ultimo incisore italiano”, dichiara Strazza.
“Sono un artista segnico, volevo approfondire proprio il segnale, in tutte le forme possibili”. In questa frase inflessibile è sintetizzato tutto il pensiero di Guido Strazza (Santa Fiora, 1922; vive a Roma).
C’è un anno che segna uno spartiacque nella sua vita: è il 1941 quando incontra Filippo Tommaso Marinetti, che entusiasma lo spirito del giovane pittore – “all’epoca avevo già preso il brevetto da pilota”, ricorda – coinvolgendolo nell’Aeropittura. Alcuni disegni superstiti di quegli anni, come Il decollo del 1942, rivelano un’aderenza alle istanze marinettiane – tanto che l’anno seguente rientra nel padiglione del futurismo italiano, curato dallo stesso Marinetti alla XXIII Esposizione Biennale internazionale d’arte di Venezia – e un’attenzione estrema, ossessiva verso il segno, che poi sarà, declinata con infinite modalità, anche tecniche, in tutto il suo percorso.
Gli anni seguenti sono quelli dei viaggi e delle scoperte di nuove geografie culturali; nel frattempo lascia la sua professione da ingegnere per seguire la sua passione per la pittura. Soggiorna a lungo in Cile, Brasile – partecipa alla Biennale di San Paolo del 1953 – e Perù. Nel 1954, durante un temporaneo rientro in Italia, decide di restarci, proprio grazie al fermento che in quel momento si respirava in alcune città della penisola. A Venezia Peggy Guggenheim gli acquista delle opere. Nel 1956, con il trasferimento a Milano, entra in contatto con Lucio Fontana ed Emilio Scanavino, approfondisce la pittura di Wols e Hartung e prosegue la sua indagine sulla pittura informale, con grandi superfici in cui si compenetrano segni e cromie, con porzioni dilatate di luce. Le trame si fanno lentamente più fitte, ma è sempre il segno il centro fondante della sua indagine, che declina in una pittura sempre ragionata. Non a caso l’incontro con le tecniche la puntasecca e il bulino è determinante.
Nella metà degli Anni Sessanta a Roma, dove nel frattempo si è trasferito, frequenta la Calcografia nazionale: “Ho passato tre anni, lavorando tutti i giorni, avevo a disposizione torchi, carta, stampatori, una vera mecca per chi come me intendeva studiare. Lì conobbi Giulia Napoleone e Luca Patella; scendevo al deposito e osservavo i Piranesi, lì ho capito che l’incisione era il mio alter ego. L’incisione è la tecnica perfetta per conoscere come nasce, cresce e si sviluppa una forma. L’incisione è un processo che ti obbliga a pensare”, ricorda mentre dialoghiamo nel suo studio romano. Segue un periodo di grande impegno per mostre personali e collettive: dalla sala personale alla Biennale di Venezia del 1968 – dove tornerà nel 1984, proponendo il ciclo Cosmati – alla mostra del 1980 a Palazzo Reale di Milano, per giungere ai recenti impegni, tra cui la preparazione, con Peppino Appella, del catalogo generale delle sue incisioni, che vedrà la luce nei prossimi mesi, proprio su iniziativa della Calcografia.
Dalla fine dei Settanta il segno si fa più netto, le carte e le tele ospitano grovigli sempre più moltiplicati, che invece negli anni recenti si sono nuovamente sfaldati, per giungere a soluzioni quasi monocrome e sintetiche che rivelano misteri assoluti di colore e forme concise. “Ho un carattere molto introverso, sono ritroso, ma non devo lamentarmi, nella mia vita d’artista ho avuto ottimi riconoscimenti, che naturalmente non sono quelli del mercato; difatti economicamente vivo con difficoltà”, aggiunge.
Poi c’è la scrittura, Il segno e il gesto, edito da Vanni Scheiwiller: “Un uomo straordinariamente sensibile”, ricorda Strazza. L’incisione, precisa Strazza, è un genere del tutto trascurato, “è sempre stata considerata un’arte secondaria, poi c’è molta confusione per una radicale ignoranza anche sulle tecniche, si confonde, per esempio, la serigrafia con la calcografia, per esempio”. Così, nonostante la presenza di sue opere in contesti di pregio – un fondo Strazza, con oltre cento incisioni di tutti i periodi fondamentali della sua ricerca, è agli Uffizi –, l’ampia fortuna critica (Carlo Bertelli, Maurizio Calvesi, Lorenza Trucchi e tanti altri), anch’egli è fuori dal sistema dell’arte, proseguendo, con un approccio quasi zen, il suo lavoro, quotidianamente.
Lorenzo Madaro
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