Carnet d’architecture. Federica Verona
Nuovo appuntamento con la rubrica Carnet d’Architecture. Carte blanche a Federica Verona, architetto esperto in social housing e politiche abitative. Che qui riflette sull’urgenza di ridefinire lo spazio in cui si vive, portando il cittadino al centro del proprio contesto.
VECCHI MODELLI ABITATIVI, NUOVE ESIGENZE
Da un lato tre milioni di alloggi vuoti, la crisi del sistema edilizio, famiglie più povere, affitti troppo alti e mercato della casa di proprietà bloccato; dall’altro, sharing economy, co-housing, social housing, esperimenti innovativi nelle periferie, co-working, start up, social street e nuovi modi di comunicare sempre in aggiornamento.
Ma perché in Italia è molto più difficile parlare di abitare collettivo e sociale di quanto lo sia, ad esempio, in Belgio o in Norvegia?
Il nostro patrimonio di edilizia popolare, per buona parte ancora pubblico a gestione privata, è vecchio e malandato, ma deve confrontarsi con nuove esigenze e nuove dinamiche sociali. L’edilizia pubblica, centrale durante tutto il Novecento e pensata e organizzata soprattutto dallo Stato, era destinata anzitutto agli immigrati che dal sud Italia si spostavano verso il nord per lavorare e migliorare la qualità di vita all’interno delle città. Oggi quello stesso patrimonio rimane il medesimo contenitore, per definizione aperto a fasce deboli e insicure, ma calato in una società dai bisogni profondamente cambiati. Single, magari con figli, giovani, disoccupati, immigrati, anziani con la pensione sociale, giovani coppie. Gli affitti bloccati per anni e la mancanza di politiche precise per il turn over hanno generato un contesto di assistenzialismo accompagnato a servizi poco innovativi, producendo contenitori del disagio assuefatti all’idea della disgrazia sociale. Lontani dal centro, in periferia, dove è difficile oggi trovare botteghe attive, negozi e spazi pubblici attrezzati, ma è ben più facile trovare bingo e bar, passati in blocco dai vecchi proprietari del quartiere a nuove gestioni di cinesi, dove consumare il tempo alle slot machine.
Se però un tempo la vita low budget era quella del lavoratore di fabbrica dal salario garantito, seppur basso, oggi le fabbriche non ci sono quasi più, e la vita low budget è quella dei nuovi mestieri (spesso a partita iva) più precari e senza possibilità di risparmio, tanto che il risparmio delle generazioni precedenti alimenta i bisogni delle nuove, ovviamente assottigliandosi. Si sta in sostanza generando una nuova domanda abitativa, che non combacia più con la risposta esistente data dall’edilizia pubblica di un tempo e dalle regole che la governavano.
SOCIAL HOUSING E CO-HOUSING
Il social housing e il co-housing sono forme più recenti di intervento, in base alle quali sono i soggetti privati (imprese, cooperative, fondazioni), oltre al soggetto pubblico, a costruire nuovi modi di abitare. Più innovativi, con un mix aperto a varie fasce di popolazione con redditi differenti. L’housing sociale, ad esempio, prevede la convivenza tra proprietà a prezzi al di sotto dei valori di mercato e l’affitto convenzionato e sociale. Nei casi più illuminati è obbligatoria la destinazione di servizi per abitanti e quartiere su una parte della superficie interessata dall’intervento. Mentre il co-housing è un modo di abitare condividendo spazi e servizi fin dalla fase della progettazione.
Purtroppo però si è ancora lontani dal rendere questi modelli ripetibili su vasta scala, in modo da funzionare come matrice per l’abitare futuro. Ma perché?
Sono soluzioni che non risolvono il tema dell’emergenza casa e del disagio abitativo grave ed esistente, che ha numeri ben più elevati. Prima di costruire nuovi modelli c’è l’urgenza di sanare un patrimonio pubblico che fa acqua da tutte le parti. Abitanti abusivi, occupanti con redditi elevati rispetto alla soglia di necessità e quindi con una notevole e sedimentata capacità di risparmio, problemi di manutenzione così incancreniti da lasciare la situazione congelata e immobile. In questo modo si crea un effetto paradossale e pericoloso: in attesa di sanare un vecchio patrimonio abbandonato, e sempre meno sanabile, non si investe su nuove idee, modelli e costruzioni. Tutto resta com’è e, ovviamente, dato il contesto, volge al peggio.
ARCHITETTURA E CULTURA, INSIEME PER IL FUTURO
Ogni tanto viene lanciato qualche concorso internazionale, aperto ad architetti di tutto il mondo, chiedendo loro, anche se al di fuori dalle loro competenze e conoscenze del tessuto, di pensare addirittura a un sistema sociale ed economico per riqualificare importanti aree urbane. Dove l’azione di cambiamento, invece, dovrebbe essere dettata da un sistema integrato che lavora sinergicamente: a partire dalle politiche di ripensamento dei “servizi”, non tanto in maniera assistenzialista, ma propositiva. Come? Magari provando a portare alla normalità insediamenti visti come ghetti, inserendovi coraggiosamente, negli spazi spesso lasciati vuoti, attività attrattive a prezzi calmierati per chi può essere interessato a gestirle – attivando così la propria start up professionale – chiedendo in cambio attività che coinvolgano abitanti e quartiere; utilizzando quindi la cultura come motore sociale. Forse non bastano asili, centri d’ascolto e scuole di italiano per stranieri vicino ai centri del disagio, forse servirebbero cinema, scuole, musei, palcoscenici per il teatro. Così facendo, potrebbe essere più facile introdurre e attrarre un mix abitativo che inizi ad essere un effettivo motore di cambiamento, frazionando il patrimonio pubblico e vendendo alloggi a prezzi calmierati a giovani che, magari grazie ai genitori, hanno ancora a disposizione un piccolo budget per chiedere un mutuo. Si vede bene che la valorizzazione dell’abitare popolare così intesa non è un compito delegabile solo agli architetti e alle burocrazie pubbliche che coordinano lavori e progetti. Un bravo architetto può ideare una bellissima sala comune o una splendida piazza, ma, se questa non è gestita e non è utilizzata, presto diventerà uno spazio desolante. Per questo, un lavoro calato nella realtà territoriale e di quartiere, che coinvolga gli abitanti, è fondamentale: un lavoro di ascolto attento, preciso e capace di portare il cittadino al centro del proprio spazio abitativo. In modo che ne diventi, con il tempo, responsabile, preoccupandosi del suo mantenimento.
Un’azione sinergica tra più attori, che utilizzi la cultura come modello sociale, è una chiave interessante, anche per cambiare in maniera costruttiva l’attitudine italiana dell’abitante medio, restio a uscire di casa, preferendo l’arcaica tv sempre accesa. La presenza di nuove modalità di comunicazione e di interconnessione tra abitanti, in questo senso, è essenziale per lavorare in un’ottica condivisa del risparmio, delle possibilità, dei bisogni e di una nuova visione dello spazio che si abita. Certo, noi architetti siamo preziosi perché sappiamo dare forma alle idee, ma senza privati illuminati che investano e amministrazioni che coinvolgano realtà sociali e culturali innovative, non riusciremo mai a dare contenuto alle forme che progettiamo. E ci fermeremo sempre alla discussione sulla “bellezza”, misura e armonia degli edifici. Discussione da architetti, appunto.
Federica Verona
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