Il dominio sui sensi effettuato dalle nuove tecnologie digitali è senza appello. Lo specchio non è più il segno del nostro corpo trasfigurato in immagine. La mano non si forma più in relazione all’oggetto di lavoro – caldo, freddo, morbido, duro, pastoso ecc. L’anestesia del tatto e del contatto priva del godimento del mondo delle sue infinite sfaccettature, trasformandoli in funzioni inutili.
Il contatto aveva il suo doppio nell’artefatto e lo specchio era la fragile illusione di un’esistenza presa nella seduzione dell’immagine. Nulla che si lasci più toccare, accarezzare, piegare, respingere, improntare, modellare. La smaterializzazione dell’esperienza trascina con sé il gesto della mano tesa verso il contatto col mondo, che resta impotentemente tale, come l’ultimo gesto di vita prima di indurirsi mortalmente. Il contatto era l’originale, il primum; era il senso alla prova della vita. Il clone virtuale che dietro l’immagine e, ancora, dietro un’altra immagine, vaporizza il fremito del vissuto, liquida pure l’idea che gli era associata: l’esperienza.
Già negli Anni Trenta del secolo scorso Walter Benjamin parlava di “povertà dell’esperienza”. Ma era riferita all’intruppamento totalitario delle masse che dietro una cerimonia di altoparlanti Neumann elettrizzava intere folle. Anche l’errore svanisce con la scomparsa del contatto. L’errore era una prerogativa della tattilità. Costituiva un insegnamento al negativo. Col digitale l’errore è bandito. Classificato come imperfetto. Genio maligno dell’esperienza.
Si profila un mondo privo di corpi e sensi, ma popolato di cloni e replicanti. Perfetti. Identici. Senza lo spettro carnale dell’altro. Perché l’errore metteva in gioco una rappresentazione drammatica dell’esistenza. Una lotta tra la materia e il corpo. Mentre il flusso virtuale esige solo l’informazione, clonabile e falsificabile all’infinito. Il contatto ci faceva contemporanei, anche per un istante. Il flusso virtuale ci rende intemporanei: autismo del tempo siderale. Il contatto sincronizzava le sensazioni. Il flusso frattalizza la comunicazione.
Il culto solare delle antiche culture ritorna, ma nella forma dell’allucinazione cultuale dello schermo. Più che un’estetica, forse, occorre un’etica della sparizione, perché ogni giorno assistiamo docili all’assassinio del contatto.
Marcello Faletra
saggista e redattore di cyberzone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #28
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