L’arte e il populismo nell’era di Céline Dion
Secondo Momus, “l’inferno è la musica degli altri”. Ad esempio, un mix di Céline Dion, Tiziano Ferro ed Air. Oppure un quadro realizzato sulla base delle risposte di un sondaggio. Insomma: la democrazia funziona davvero e in ogni caso?
Si deve davvero credere alla democrazia? Perché mai si dovrebbe pensare che ognuno sappia dire la propria, credere al senso comune, alla cultura di massa? La gente, in fondo, è solo gente, e le persone sono altro. La gente è carina, mai bella, legge poco e ascolta Céline Dion, Tiziano Ferro e gli Air. La gente è la maggioranza.
Tempo fa due artisti russi, esuli e immigrati in America, commissionarono un sondaggio, popolare e democratico, dall’eloquente titolo La scelta della gente con cui definire le caratteristiche predilette (e quelle più detestate) in un’opera pittorica per poi realizzarla. Le preferenze raccolte da Vitaly Komar e Alexandir Melamid si concentrarono sulla predominanza di blu, un’ambientazione naturale e la presenza di figure storiche, di animali, di donne e di bambini in abiti casual. America’s Most Wanted risulta, in pratica, un sereno, insulso e incongruente quadro di medie dimensioni in cui una famiglia cammina davanti a George Washington lungo la riva di un lago in cui si bagna un cervo. Niente di raccapricciante, ma non esattamente una meraviglia. Probabilmente un quadro poco appagante che nessuno sceglierebbe per appenderlo in casa propria.
Allo stesso modo, in seguito, Dave Soldier, compositore e neuroscienziato americano, andò alla ricerca della canzone perfetta: quello che ne ricavò fu un lento duetto cantato da una voce maschile e una femminile, con chitarra, sassofono, archi, batteria e sintetizzatore. Qualcosa di molto simile, dichiararono i critici, a una canzone di Céline Dion, appunto.
La diffusione generalizzata delle idee tende a renderle insulse: siamo tutti fotografi e ci basta un telefonino per pensarlo davvero. Tutti scrittori, artisti, outsider, democratici. E banali. Non ci rendiamo conto che la direzione intrapresa è quella in cui i confini dell’arte sono talmente ampi da non contenere più nulla. In cui la meraviglia non è più il valore.
David Weinberger, filosofo della tecnologia, sostiene giustamente che siamo molto meno liberi di quanto pensiamo di essere e lo siamo proprio a causa di ciò che più crediamo che ci consenta il libero arbitrio: la conoscenza.
Perché non sappiamo più scegliere? Perché deleghiamo i nostri gusti, le nostre scelte? Perché pensiamo di sapere tutto e tutto accettiamo, credendoci determinanti? Perché non sappiamo più giudicare con la nostra testa e ammettiamo ogni populismo? Perché lasciamo alle radio decidere che musica ci piace?
La globalizzazione della conoscenza a danno del ragionamento individuale, la massificazione dei concetti e dei prodotti, i progressi della grande distribuzione a discapito del dettaglio da prendere a scatola chiusa come un’opera di Piero Manzoni. “Quanto più ti illumini tanto più ti oscurano”, diceva qualcuno. Quanto più abbiamo, tanto meno scegliamo. Perché non servono mille mete ma una direzione.
L’uomo è un animale sociale, feroce e insicuro, tende per propria natura a omologarsi per fare branco. Ha bisogno di aggregazione e conferma, di cantare in coro mentre il pensiero libero fa paura finché qualche like o la televisione non lo confermi. Preferisce il pregiudizio comune e i suoi luoghi, gli abiti scuri, i ruoli chiari, la musica semplice come certe idee e ha paura del giudizio. Vuole il consenso dei suoi pari, del proprio branco, si glorifica con il dissenso dei dissimili. Il valore è dato dal riconoscimento, dalla mediazione. Il prezzo ne è la conseguenza.
È questione di gusto, così difficile da codificare, e di certo influenzato dallo status ma anche da etnia, istruzione, casi della vita e apertura mentale. Di certo influenzato da chi vuole influenzarlo, come ogni moda.
Il conformismo ci porta a pensare di avere gusti migliori, che la nostra verità sia la verità vera al netto del dubbio, che la migliore democrazia sia la nostra illuminata dittatura mentre, invece, dovremmo più spesso provare a immedesimarci nell’altro senza per questo assuefarci. Non cercare di convincere né di convincersi, ma di capire, o almeno provare a farlo, capire le ragioni dei gusti degli altri. Perché non è nel cercare di rendere gli altri uguali a noi né nell’adeguarci ai gusti degli altri la strada per il mondo ideale. È, invece, nell’ascolto comprensivo come quello che ha regalato Carl Wilson, critico musicale canadese, a Let’s talk about love della Dion e di cui ha scritto in un libro dal titolo eloquente: Musica di merda.
È facile fare opposizione obiettando senza proporre, è facile proporre senza alcun riscontro. È più facile dire che fare, essere Statler e Waldorf pittosto che Kermitt.
Come dire di voler pagare le tasse ma di volerne pagare quanto è giusto, non di più. Il problema, però, è quando ognuno decide autonomamente quello che è “giusto”: un giusto che spesso non coincide con la legge, finché non faremo nulla per cambiare quella legge. “Fare o non fare, non c’è provare”, direbbe Yoda. Anche sa per cominciare basterebbe studiare un po’.
Franco Broccardi
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