Bufera street art a Bologna. Parlano Fabiola Naldi & Claudio Musso
Continua la nostra inchiesta intorno agli ormai celeberrimi (e famigerati?) strappi di murales avvenuti a Bologna. Finora hanno parlato uno dei due curatori della futura mostra (Christian Omodeo), un critico (Renato Barilli), una giurista (Raffaella Pellegrino) e un artista (Flavio Favelli). Ora la parola passa a due curatori che operano a Bologna e che da tempo si interessano proprio di arte urbana: Fabiola Naldi e Claudio Musso.
Sia Christian Omodeo che Flavio Favelli, in senso opposto, citano esempi classici di oggetti artistici e architettonici che sono finiti nei musei, e spesso a migliaia di chilometri di distanza dal loro luogo di origine. Quel che vorrei chiedervi non è tanto una riflessione su colonialismo e post-colonialismo, piuttosto la vostra opinione museologica. Perché la fallacia del ragionamento – sia da una parte che dall’altra – mi pare stia proprio nel pensare che i musei non possano mutare identità. Ed è una fallacia in cui incorre sia chi dice che è legittimo musealizzare interventi artistici nati per la strada, sia chi dice l’esatto contrario.
Per far sì che l’idea di museo aperto, diffuso, che vada oltre le sue stesse mura, è forse necessario anche superare una certa idea di opera d’arte, così come di tutela e conservazione della stessa. L’idea di museo dovrebbe modificarsi seguendo le eccedenze delle pratiche artistiche. Fenomeni come il writing e il wall drawing si possono prestare a un’interrogazione metodologica rispetto alla possibilità di generare un racconto multilivello, anche sfruttando le nuove tecnologie.
In che modo?
Esistono ormai da decenni sistemi di registrazione per le opere cosiddette effimere, casi emblematici di produzione artistica a partire dal secondo Novecento (Land Art, performance, happening, fra le altre) hanno forzato i limiti della fruizione e della trasmissione dell’opera, sottolineando l’imprescindibile contestualizzazione spazio-temporale. Con pertinenza si potrebbe ricordare che la migliore storia del writing a New York si può leggere dalle documentazioni fotografiche di Jon Naar, Henry Chalfant, Martha Cooper ecc. Forse il confronto con l’epoca medioevale o moderna andrebbe costruito su base stilistica piuttosto che su metodologie di conservazione delle opere.
Le argomentazioni a favore degli strappi sono sostanzialmente tre: è una pratica consolidata; permette la salvaguardia di opere altrimenti destinate alla distruzione; compie un passo ulteriore rispetto al restauro in loco, pratica quest’ultima che privilegia le opere legali. Che ne pensate?
Ogni caso è specifico e va trattato come tale, sia nell’eventuale recupero, sia nella scelta del restauro. Se è vero che è una pratica consolidata, è anche vero che gli esempi pertinenti al contesto dell’arte urbana sono pochi e non c’è una soluzione univoca. Mentre per gli affreschi appartenenti ad epoche passate questa metodologia può essere accettata, è necessario rimarcare che qui siamo di fronte a un’altra tipologia di opera (che non può neanche essere definita “affresco”). Ci sono pratiche artistiche che nascono con la precisa intenzione di non essere durevoli o che si espongono alla deperibilità, e questo non riguarda solo l’arte urbana e può essere intesa anche come intenzione stessa dell’opera: la soluzione non può essere solo la salvaguardia a priori. Diverso può essere il caso in cui gli strappi nascono da esigenze specifiche di restauro e conservazione architettonica e quando gli artisti vengono coinvolti nella scelta della soluzione da attuare.
Come si procede in questi casi?
Prendiamo ad esempio il caso del recupero e della trasformazione di un edificio storico come gli ex Magazzini Generali di Verona, che dal 2005 è coinvolto in un piano in cui lo studio Mario Botta è stato chiamato a intervenire. Alcuni interventi di writing sedimentati sulle pareti dalla fine degli Anni Ottanta sono stati staccati e restaurati a cura degli esperti Luciano e Osvaldo Maggi della Decorart s.n.c. in accordo con gli autori e verranno ricollocati al termine dei lavori.
E a proposito della terza argomentazione a favore degli strappi?
Non è sempre detto che le opere legali prevedano l’intervento di restauro. Per esperienza personale possiamo dire che gli artisti invitati per il progetto Frontier a Bologna, interrogati sul futuro della loro opera, si sono dichiarati contrari all’eventuale ripristino in caso di deperibilità.
Parliamo di mezzi e supporti. Da critici d’arte, come valutate il trasferimento su tela di opere realizzate su muri? Cosa si perde, cosa si guadagna, cosa si modifica?
Dal nostro punto di vista, quelle opere assumono un senso preciso proprio perché realizzate in contesti specifici e in dialogo con i luoghi di appartenenza. Non solo il valore stesso dell’opera può essere falsato dal trasferimento su tela o da altra tipologia di stacco, ma ci chiediamo se il senso di tale spostamento possa essere a sua volta considerato di importanza storica documentaria.
Restando sui pezzi strappati: l’opera di Blu sembra un mero esercizio di stile. Insomma, l’equivalente di uno schizzo preparatorio destinato al cestino, se fosse stato realizzato su carta. È un’impressione sbagliata, la mia?
Blu, come altri artisti, ha un sito Internet, una pagina Facebook ufficiale, e attraverso questi canali veicola le sue opere, che siano interventi murali o altro. Con lui, per esempio, la questione è più complessa: oltre alla possibilità che quelle opere a cui ti riferisci siano esercizi di stile, esiste la possibilità che quelle porzioni fossero parte di uno sviluppo cinematico strumentale alla realizzazione di video passo uno, la cui valenza singola è ancora più difficile da definire. Ribadiamo che l’azione illegale, quindi spontanea e completamente gestita dall’artista, prevede anche la scelta di realizzare un’opera in uno spazio visibile al pubblico più ampio o in un luogo nascosto e frequentato esclusivamente da una comunità ristretta. Quelli che in gergo vengono chiamati “muri palestra”.
A proposito della mostra bolognese. Qualcuno dice, forse banalmente ma non senza un pizzico di buonsenso: perché non si è chiesto agli artisti di realizzare opere ad hoc? Non è quello che pare faranno, ad esempio, Cuoghi e Corsello – i quali si sono opposti allo strappo delle loro papere?
Parlare di una mostra non ancora aperta è impossibile. Se fosse stato meglio chiedere opere ad hoc in realtà dipende dalla tipologia di esposizione che si desidera organizzare. Non siamo a conoscenza né della lista di artisti invitati né di come sceglieranno di partecipare – almeno coloro a cui la scelta è stata data.
Qui veniamo al rapporto con gli artisti. La prima domanda, ovvia, è: secondo voi perché non sono stati interpellati? Sono vivi, sono raggiungibili piuttosto facilmente…
Gli artisti sono vivi e scelgono di comunicare nel modo che ritengono più utile. Dal canto nostro, abbiamo sempre lavorato in rapporto continuo con l’intenzione e la volontà artistica, mettendo al primo posto le scelte degli autori. È una prassi che guida il nostro operare come critici e curatori in ogni ambito del contemporaneo.
Christian Omodeo fa un discorso forse antipatico ma interessante proprio sulla mancanza di maturità da parte della comunità artistica street. Secondo il suo parere, l’assenza di rapporti con figure curatoriali vere avrebbe condotto quella stessa comunità a mettersi di fatto nelle mani di dealer senza troppi scrupoli. La soluzione è veramente “fregarsene” del diritto d’autore?
Una domanda di questo genere dovrebbe essere rivolta ai diretti interessati. Per quanto ci compete, possiamo solo affermare di aver lavorato con dei professionisti consapevoli del proprio agire e del proprio ruolo. Tutt’altra questione è quella del mercato e delle varie figure che lo circondano. Il quadro legale è già stato chiarito, ma il rapporto con gli artisti a nostro avviso e nella nostra esperienza dovrebbe essere fondato sul rispetto dell’opera e delle intenzioni dell’autore, a prescindere dal parere giuridico.
In tutta questa polemica gli assenti sono gli artisti, ed è paradossale. Manca però anche un altro attore fondamentale: le comunità. Non è forse un elemento fondamentale, visto che la Street Art opera sul territorio, con tutte le contraddizioni e le frizioni che si porta dietro?
Dichiarare di aver agito per l’interesse di una comunità (quale comunità?) è dal nostro punto di vista in contraddizione con l’affermare che non si è interessati al parere degli artisti (anch’essi parte di una comunità coinvolta). E tanto meno è stata coinvolta la comunità locale, a quanto ci risulta, visto che la notizia è stata data quando l’operazione di strappo era già stata eseguita.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
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