Rochelle Feinstein. Astrazione femminista al CAC di Ginevra
La mostra dell'americana Rochelle Feinstein, presentata al Centre d'Art Contemporain di Ginevra diretto da Andrea Bellini, è la prima personale che un'istituzione pubblica dedica a un'artista che ha guadagnato fellowship e grant da luoghi come il Guggenheim o come la Joan Jonas Foundation, ma che è stata “scoperta” tardi dai musei. Il Lenbachhaus di Monaco, il Kestnergesellschaft di Hannover e il Bronx Museum di New York ospiteranno le tappe future di un'esposizione che raccoglie 25 anni di lavoro e più di 70 opere.
“Sono una cittadina”, dice Rochelle Feinstein (New York, 1947), quando le chiedo come il suo impegno nel femminismo abbia inciso sulla sua pratica artistica. C’è un anarchismo, in questa insegnante di pittura e grafica a Yale, che la classifica come un’individualista impegnata nella società civile attraverso il mezzo della pittura astratta.
Debitrice verso l’astrazione europea e il modernismo americano, Feinstein li supera entrambi utilizzando il quadrato e la griglia (approcciati con libera espressività) come forma specifica di un’organizzazione spaziale che è anche concettuale, dentro cui far confluire elementi di esperienze personali tradotti in indicatori sociali e culturali. Il tutto sotteso da un sense of humor che non si risolve in battuta o in ammiccamento, ma si radica nella scelta dei progetti e dei processi utilizzati.
In The Abramovich Method, la pittura come cosa mentale viene ridefinita a partire da un incontro occasionale con un fenomeno socio-culturale che coinvolge l’ormai leggendario villaggio di Dafen, in Cina, interamente dedito alla copia di dipinti di ogni periodo, genere e fattura: il progetto scatta una fotografia della Cina attuale e della sua attitudine culturale verso la mimesi che ne spiega l’economia fondata su una manifattura capace di ripetere e copiare ogni cosa.
Anche in The Estate of Rochelle F., l’artista porta l’atto creativo fuori dai binari consueti per riflettere, con sagacia e opportunismo, sul rapporto tra creazione e produzione, tra l’artista e il suo studio inteso come proiezione di un mondo interiore e, più concretamente, come accumulo di materiali. Feinstein coglie occasioni dalla crisi economica per creare il proprio archivio, eredità, fondazione. Usa uno dei processi di beatificazione dell’artista per riciclare opere e materiali giacenti in studio. L’irriverenza s’appropria di un processo alto, torcendolo verso un fine che accoglie sia il gioco sia una più seria riflessione sul valore dell’arte e della crisi economica.
La mostra nasce al CAC di Ginevra e proseguirà in altri musei. Cambierai qualcosa nelle diverse occasioni?
Certamente, la cosa interessante è che fino ad oggi ho lavorato con gallerie, spazi alternativi, residenze d’artista ed enti non profit; ho partecipato a molte collettive ma non ho mai avuto una personale in un’istituzione pubblica e questa è l’occasione per sottoporre uno stesso corpus di miei lavori a quattro diverse immaginazioni curatoriali.
È una grande occasione ermeneutica.
Fin dagli Anni Ottanta ho deciso che il mio lavoro avrebbe seguito una traiettoria precisa, ma non ho mai voluto comporre delle serie di lavori pensati come elementi di un cammino evolutivo. Ogni mio lavoro appartiene a tempi e a soggetti differenti.
Come ti sei avvicinata al femminismo e come ha influenzato la tua arte? Appare anti-sistemica e sembra voler catturare l’esistenza dentro un’arte astratta non ancora classificata. Sembra un approccio da musicista free jazz.
O da cittadina. Sono stata e sono un’attivista femminista ma non mi identifico con questa posizione, come accadeva alle femministe degli Anni Settanta e Ottanta. Ho grande rispetto per quella che è la mia generazione, ma non sono interessata nel prendere una posizione morale esclusiva. Mi sento una cittadina donna.
Che senso dai al tuo femminismo, quindi?
Te lo dico attraverso un libro fantastico che sto leggendo: The Art of Guilty. Affronta la questione morale secondo Antonin Artaud. La domanda è: come si prende posizione in una società che non supporta la tua posizione? È una questione morale perché, seppure quel che fai non è immorale, certamente è qualcosa di anarchico, che ti fa muovere al di fuori del sapere e te lo fa revisionare.
Per me ciò accade in termini di linguaggio visivo e di percezione. Il mio femminismo viene fuori da ciò e non mi interessa farne una questione comportamentale o discutere la vita domestica. Mi interessa restare in una posizione di critica culturale.
Usi la tua vita personale come un materiale da costruzione al pari di pennelli e colori.
La uso chiedendomi che valore posso estrarre dall’esperienza quotidiana.
Un tuo viaggio in Italia e Germania ti ispira un trittico pittorico di grandi dimensioni. Mi ha interessato la domanda posta sul quadro dedicato alla Germania.
Sono giunta in Germania in un momento in cui la nazione si stava confessando, le persone al governo dichiaravano pubblicamente che il padre o la nonna erano stati nazionalsocialisti. Il quadro è fondato su questa domanda che mi veniva posta ovunque andassi: “Feinstein è un nome tedesco o ebreo?”. Ero incuriosita da questa domanda che mi stava parlando della cultura tedesca più che di me o della mia cultura.
Ti è sempre stata posta?
Ero stata anni prima in Germania e non era accaduto, poi nel 1997 la domanda diventa ossessiva. I tedeschi stavano riconoscendo il proprio passato, non direi le proprie responsabilità (attualmente più nessuno è responsabile) ma una certa storia. Ciò è quanto ho tenuto del viaggio: un’esperienza sociale.
La mia impressione è che usi la pittura come una rete dentro cui finiscono catturati i tuoi ricordi, le esperienze personali ed elementi d’intimità che però riflettono questioni sociali e culturali. Come se la pittura fosse uno strumento.
Certo, è uno strumento che io rispetto e si lega al mio femminismo degli Anni Ottanta. Ho voluto essere pittrice quando ho capito che c’era in essa qualcosa di avvincente da investigare e conoscere.
Cos’era?
Realizzai che la pittura, così come l’architettura e le altre arti, era parte della storia e come storia era parte della nostra cultura. Iniziai così a pensare alla pittura, ma ci è voluto tempo per maturare i pensieri.
La pittura negli Anni Ottanta era quella del dopo-Greenberg e del dopo-Rosenberg.
Ero attratta dall’astrazione, la figurazione era per me troppo definitoria ed emotiva. Preferivo mettere l’emozione in una linea o un punto, non in una figura. L’astrazione era interessante anche perché era un finale di partita.
Preferivi quella europea o quella americana?
Europea, ma m’interessava il modernismo americano. Era un momento in cui non c’era un vero spazio per le donne, per la gente di colore o per i gay: l’arte astratta appariva come un dominio maschile. Quindi mi sono detta: bene, l’astrazione è una sfida che voglio affrontare, anche perché volevo entrare a far parte della grande storia.
The Estate of Rochelle F. è un progetto in cui decidi di riutilizzare tutto quel che è stoccato nel tuo studio in quel momento, combinando materiali diversi. Una mossa alla Rauschenberg.
Estate è un progetto che prende forma da diversi input. Rauschenberg è parte del mio lavoro e della mia tradizione: non puoi essere un pittore americano e non pensare a quel che ha fatto con i diversi materiali nei Combines. Però era un momento storico diverso, il mio Estate nasce da una combinazione di elementi, tra cui la crisi economica del 2008.
Una questione concreta che rimanda a uno sfondo culturale, il capitalismo globalizzato e finanziarizzato, di cui il lavoro parla per deduzione. La mostra ha un momento più pop nella sezione intitolata I Made a Terrible Mistake, in cui usi Micheal Jackson come musa.
Jackson non è proprio una musa. Come molti dei miei quadri, anche questo è stato innescato da una frase, quella che Jackson disse dopo aver messo in pericolo suo figlio sporgendolo dalla finestra di un hotel per mostrarlo ai fan berlinesi: “Ho commesso un terribile errore”.
Perché ti colpì?
Perché sono termini molto comuni, qualcuno commette un errore e dice “mi dispiace”, ma la vera contrizione è indicata dal fatto che continuerà a soffrire per l’errore commesso. Mi ha fatto pensare al ruolo dell’errore nel mio lavoro e a come posso fare errori al di fuori del risentimento. Per me la frase assume il senso di un’istruzione.
Un altro progetto in mostra è The Abramovich Method, in cui segui il processo che porta a far copiare un tuo dipinto nel villaggio di Dafen in Cina. Come nasce?
È successo per un effetto di serendipity. Sono stata contattata via e-mail da un amico vice-direttore di un istituto che voleva un parere su un paesaggio realizzato da un pittore americano di cui c’era una copia fatta in Cina non corrispondente. Ho trovato che le e-mail fossero come istruzioni per rifare un mio dipinto, del quale non mi interessa davvero se non in termini di processo. Dafen è un fenomeno culturale, una sorta di esperienza rituale e sciamanica.
Nicola Davide Angerame
Ginevra // fino al 24 aprile 2016
Rochelle Feinstein – In Anticipation of Women’s History Month
a cura di Fabrice Stroun e Tenzing Barshee
CAC
Rue des Vieux-Granadiers 10
+41 (0)22 3291842
[email protected]
www.centre.ch
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