Il grande pubblico ha conosciuto Saoirse Ronan quando è diventata la protagonista di Espiazione per Joe Wright, con cui ha girato anche il thriller Hanna. La Ronan ha lavorato con Wes Anderson in Grand Budapest Hotel, ha recitato nel film d’esordio di Ryan Gosling Lost River, in The Way Back di Peter Weir, al fianco di Ed Harris, ed è stata la bambina segregata in Amabili Resti di Peter Jackson. Niente male per avere solo 21 anni.
Dopo aver ricevuto candidature ai Bafta e ai Golden Globes, quest’anno era di nuovo fra le nominate all’Oscar per la sua interpretazione in Brooklyn di John Crowley, che sta per uscire anche nelle sale italiane.
Brooklyn è ambientato negli Anni Cinquanta, una tendenza ricorrente negli ultimi mesi, ma molto differente nella forma dagli altri film: composto, semplice, classico, chiaro. Merito della sceneggiatura di Nick Hornby (Alta fedeltà, An Education), tratta dal romanzo di Colm Tóibín, e delle capacità espressive di questa giovane attrice in grado di reggere e riempire da sola lo schermo con eleganza, pacatezza e intensità, doti molto rare. Saoirse Ronan rappresenta perfettamente la tipologia femminile che circola in quegli anni: un genere di donna che si incontra spesso negli album di famiglia e che potrebbe essere la nonna di chiunque. Se quindi la storia racconta i dettagli di un viaggio migratorio dall’Irlanda agli Stati Uniti di una giovane ragazza, è l’universalità del messaggio a prendere il sopravvento. L’ovest rappresenta il futuro, la speranza, la salvezza, la libertà, l’indipendenza, la cura dal male; l’est è la storia, il passato, l’oscurantismo, il conformismo, l’abitudine ottusa, la trascuratezza.
VEROSIMIGLIANZA E COMPOSTEZZA
Potrebbe trattarsi del racconto di una qualsiasi parente immigrata nella Grande Mela, gli elementi ci sono tutti: un viaggio per fuggire dalle ristrettezze economiche, il distacco dalla propria terra, il sacrificio di un lungo viaggio in nave verso la speranza di qualcosa di meglio. Persino le difficoltà iniziali di Eilis Lacey, la protagonista, sono così credibili da essere quasi tangibili e, nella misura della loro umiltà, toccanti, profonde e dignitose. La presa di consapevolezza della propria individualità di donna, l’incontro con l’amore e poi il dubbio sulla strada da scegliere: quante di quelle donne sono tornate indietro per sposare un conterraneo, quante hanno avuto il coraggio di fare il salto definitivo dall’altra parte del mare? Perché, in fondo, di bello il film ha anche questo: un finale personale, opinabile, che non è una garanzia, ma una nuova sfida, senza alcuna certezza definitiva. La delicatezza e la forza della protagonista sembrano prendere forma e vita dalle parole di qualcuno veramente esistito. Persino i costumi (curati da Odile Dicks-Mireaux), che in quel genere di film sono sfarzosi ed esagerati, hanno l’equilibrio del reale: pare di sentire l’odore della cipria nella borsa di una vecchia zia vanitosa che arriva dall’America. La stessa vanità, sintomo di benessere, che Eilis conquista nel Nuovo Mondo e che la rende più bella a se stessa e agli altri. Come a dire che l’America tira fuori il meglio di ognuno di noi. Un messaggio superato oggi, ma che allora doveva essere davvero forte e chiaro.
Federica Polidoro
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