Marche. Un itinerario d’artista al femminile
Nel giorno dedicato alla donna, Giovanni Gaggia percorre il territorio marchigiano sulle tracce delle artiste che lo hanno popolato. In un viaggio a tappe e tasselli, attraverso le epoche e i luoghi, in cerca di una creatività dalle molteplici sfumature.
UN VIAGGIO ALL’INSEGNA DELL’ARTE
Mi ritrovo a percorrere un viaggio fisico e, cosa per me più importante, metafisico. Questo lo posso fare soltanto grazie all’arte, cammino per la mia “regione al plurale” in cerca di tracce, segni lasciati da artiste marchigiane. Il compito è arduo e il perché è comprensibile: la gente marchigiana è riservata, chiusa, si apre piano. Mi immagino che di donne artiste ce ne siano state tante nella storia, ma credo che abbiano affidato la loro opera a una sorta di scrigno segreto, quasi a volerla proteggere, proprio come facciamo noi con le nostre terre. Penso alle donne che son passate negli anni a Casa Sponge, la residenza d’arte contemporanea che dirigo a Pergola, nella contrada di Mezzanotte, dove arriva soltanto chi lo vuole davvero, e qui di donne artiste negli anni ne son passate tante, alcune marchigiane di nascita o d’adozione. Penso a Rita Vitali Rosati, Simona Bramati, Erika Latini, Ljudmilla Socci, Elena Rapa, Morena Chiodi, Ivana Spinelli, Veronica Chessa, Laura Baldini, Erika Patrignani, Rita Soccio, Gesine Arps, Chiara Francesconi, Mara Cerri e Magda Guidi…
Ed è proprio grazie a loro che posso mettere insieme alcune tappe del mio cammino, la prima e l’ultima e in mezzo il viaggio.
UNA PITTURA INTIMA
Nel percorso che unisce Pergola a Marotta penso ad un piccolo museo, che contribuii a creare, una decina d’anni fa. Ricordo che già allora non mi piaceva associare al progetto il termine museo, mi dava l’impressione che fosse già morto, che nascesse vecchio. La meta è Villa Valentina, quella che doveva esser la sede del MAC Marotta/Mondolfo Arte Contemporanea, una quarantina di artisti invitati a donare le proprie opere con l’accordo che la struttura si impegnasse a rimanere viva, pulsante. Questa raccolta è attualmente visibile nel complesso monumentale di S. Agostino a Mondolfo. A oggi, però, ciò che doveva essere una farfalla è rimasto un bruco, nonostante le potenzialità. Il cinquanta per cento degli artisti sono donne, tra queste ce n’è una che mi ha spinto oggi a ritornare: Simona Bramati. Vive a Castelplanio, circondata dai suoi animali, i suoi gatti, le sue galline, i suoi piccioni e Giulio, il suo cane, sempre con lei. Qui c’è un dipinto su tela di 30 centimetri, Nella doccia. Piedi di donna, uno sull’altro, lasciano immaginare il resto del corpo, pudore e tenerezza in un gesto intimo, personale, a tutela di sé, o da uno sguardo indiscreto. Studiandolo più attentamente, la scena muta, diviene danza, si percepisce il movimento, si sente la musica, la voglia di andare, la voglia di uscire dalla doccia e di cambiare, per questo motivo lo eleggo a primo tassello del mio percorso.
QUANDO L’ARTE È LA CURA
Lascio Marotta in direzione nord, percorro la statale, tra Fano e Pesaro ci sono dei segni che non posso tralasciare: un centro anomalo, ideato e diretto fino a circa un anno fa da Roberta Ridolfi. Il progetto si genera negli spazi degli ospedali più grandi del nord delle Marche e, a mio avviso, dovrebbe esser protetto e valorizzato, ma anche in questo caso non vedremo volar farfalle. Entro nel nosocomio di Fano, intimorito, con uno sguardo che va altrove, tra pazienti e infermieri cerco i due reparti di Oculistica e Riabilitazione cardiologica. Qui Laura Baldini ha dipinto metri e metri di sogni, metri e metri di sguardi verso l’altrove, per i pazienti. Tra una barella, una seduta e un medico, dall’alto mi appaiono linee e colori che vanno a generare un fanciullo fluttuante, dal suo cranio escono farfalle – queste sì che volano, queste sì che le posso prendere come metafora del mio pensiero. Il corridoio di riabilitazione cardiologica, Baldini l’ha trasformato in un acquario: lo spazio si popola di pesci, crostacei e alghe surreali, assecondando la volontà di prendere per mano il malato e portarlo dentro una fiaba, in un fumetto. A Pesaro le storie di Baldini esplodono, tra Muraglia ed il San Salvatore, dalla sala d’aspetto di Oculistica, al Laboratorio Analisi, fino al bunker di radioterapia, qui le linee ci tirano via, ci fanno correre.
UN’ANIMA INQUIETA
Colpito e senza parole riprendo il mio viaggio, non mi va di rifare la statale al contrario e imbocco la A14 IN direzione sud. La mia meta è il comune sparso di Trecastelli nell’hinterland di Senigallia, in località Ripe, in cerca di un piccolo museo – questo sì che ha senso definirlo tale. Il museo è recente, il piccolo comune in questi anni ha deciso di rivalutare e valorizzare la figura della pittrice e intellettuale Nori de’ Nobili e lo ha aperto nel 2012 presso il Villino di San Romualdo. Il museo è suddiviso in cinque stanze e raccoglie una settantina di opere, a raccontare la vita di Nori. Si è avvolti da cromatismi e da pennellate, giocatori di carte, strumenti musicali, vedute, abiti sfarzosi, completamente rapiti dagli elementi che hanno composto la vita di questa donna borderline. Traccia indelebile nei caratteri artistici di de’ Nobili è il periodo fiorentino, dove l’artista si avvicina al gruppo Strapaese di cui uno dei rappresentanti è Ottone Rosai. Il movimento nasce da una scissione da Novecento e vuole mettere in evidenza i valori della cultura contadina e provinciale. Erano gli Anni Trenta, non facili per un’artista. Nori de’ Nobili subì pregiudizi sessisti e le varie difficoltà della vita le causarono una malattia nervosa, tentò addirittura il suicidio. La malattia si accentuò con la morte del fratello e, all’età di 33 anni, venne chiusa in manicomio, dove morì a 66. In quell’arco di tempo produsse più di mille opere. L’ultima opera che accompagna la mia visita è L’anima di Nori che sale in cielo, una figura di donna esile che si assottiglia, lasciando la terra per raggiungere il cielo. Questa figura diviene la seconda tappa fondamentale, i piedi di Simona si arricchiscono del viaggio delle altre, ora Nori vi aggiunge il suo corpo.
UN ITINERARIO ATTRAVERSO I SECOLI
Prima dell’ultimo tassello nella contemporaneità, voglio fare un salto indietro nel tempo e mi ritrovo a Fermo, sulle tracce di Lucia Ricci, pittrice del Settecento. La sua attività si svolse interamente tra le mura della bottega di famiglia, circondata da uomini – il padre, il fratello il cugino – con il compito di accudire la madre. La libertà dagli obblighi del matrimonio permise a Lucia di perseguire la via della pittura. Un dipingere omogeneo, lineare, come a cercare una perfezione, che ha reso le opere non riconoscibili, rischiando di annullarne il fascino. Non deve essere stata facile la vita di “suor Lucia”, pittrice nel Settecento tra soli uomini e con un’unica via possibile: la spiritualità e la ricerca di perfezione pittorica. Ripenso a Nori de’ Nobili, alla vita in manicomio, dove l’unica via di fuga era la pittura. Qualcosa accomuna queste due donne.
Mi lascio alle spalle Lucia Ricci, riprendo il viaggio in direzione di Macerata. Ritorno nel mio tempo, ritorno ai passaggi di Casa Sponge, in cerca di una delle opere giovanili di Rita Vitali Rosati, I cieli e le memorie. Un lascito che l’artista donò, dopo la sua prima personale alla biblioteca comunale di Macerata, tra il 1980 e il 1982. L ‘opera è esposta a Palazzo Buonaccorsi, davanti a essa chiamo Rita al telefono, mi racconta: “I cieli e le memorie erano due stanze, una con cieli dipinti e l’altra con i cieli fotografati, i cieli erano quelli fotografati e le memorie erano i dipinti. Allora ero molto più seria, più chiusa e introversa. Cambiato il carattere e cambiata l’opera. Silenziosa, appartata, chiusa in quei cieli volevo un po’ scomparire, oggi no, c’è una Rita che è partita all’assalto di che cosa non si sa”. Rita ricorda di essersi sentita soddisfatta e nel contempo guardinga, si sentiva spettatrice, le sembrava che l’autore fosse un’altra persona. Era uno dei primi lavori, un’artista in erba che tentava una strada con un lavoro di ricerca, ibrido. Il punto di partenza di Rita è il punto che chiude la mia linea, il mio viaggio. Un punto che si chiama memoria, un cielo come sedimentazione, con il gusto e il sapore di vissuto.
Giovanni Gaggia
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