La strage di Bruxelles. Immagini e polemiche sul web
L’attentato di Bruxelles e il suo riverbero sulla Rete. Blog, giornali, social. Fra ironia, polemiche, solidarietà e cronaca serrata, il dramma cerca una forma possibile fra immagini virali e valanghe di post. Un riassunto, con alcuni casi esemplari.
ESISTE ANCORA UN’IMMAGINE PER L’ORRORE?
E mentre correva feroce l’eco dell’ennesima esplosione, inflitta dal manipolo dell’ISIS al cuore dell’Europa, la tragedia trovava il suo doppio immateriale nel mare della Rete. Alla velocità della luce.
Bruxelles come Parigi, Istanbul, Tunisi, teatri di una guerra non santa, miseramente ideologica e banalmente di potere; Bruxelles che ha pianto i suoi morti in un mattino di primavera, mentre il resto del mondo faceva i conti con il solito mix: paura, sospetto, allarmismo, sciacallaggio, analisi al megafono e commozione silenziosa, retorica del multiculturalismo e controretorica xenofoba, cronaca coraggiosa e voyeurismo acchiappa-click.
Ovunque, l’immagine sbiadita dell’orrore: quella che nessuno – dall’arte fino ai media – riesce più a formalizzare, ad infuocare. A rendere speciale. Che volto ha l’orrore nella vertigine dell’iconomania dominante e dell’assuefazione visiva? Nell’era dell’informazione posticcia via social? Nel tempo della leggerezza e della velocità come condanna, non più come virtù?
Il web risponde con una marmellata di informazioni, suggestioni, derisioni, disamine, testimonianze a caldo e trovate gratuite. E qualcosa, nel magma indistinto, diventa virale. E dunque simbolo. E dunque “storia”, con la “s” minuscola e nell’accezione fluida, antimonumentale, a cui ci siamo abituati.
SORRY FOR BRUXELLES. L’EQUIVOCO E L’INNOCENZA
Lacerante la foto del piccolo profugo del campo di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia. Subito l’immagine esemplare della miseria in atto. L’equivoco che diventa colpa, che diventa stigma, che genera altro dolore. Il bimbo, uno dei molti musulmani schiacciati contro una frontiera, in attesa di asilo, tiene fra le mani un cartello: “Sorry for Bruxelles”.
La richiesta di perdono sventola in alto, appesa alle braccia minute. Un innocente chiede scusa, coi suoi pochi anni e le troppe macerie intorno, convinto di dover espiare per conto d’altri. La fede islamica come peccato originale: linea perversa su cui viaggiano le facilonerie di massa, le astuzie di una certa politica bassa e i populismi grevi.
Quando invece, per la straziante logica delle cose, quei killer immolati a una fede distorta, sono – con ogni probabilità – gli stessi che hanno condannato alla fuga lui, il piccolo profugo, e la sua gente, la sua famiglia. Qualcosa che i tifosi delle muraglie dimenticano spesso: l’altra vittima è l’Islam. I musulmani perseguitati, minacciati, manipolati, condannati all’inferno. E così quelli lontani dalla guerra, ormai integrati, che sulle spalle portano comunque il peso di un’idea malata, di una bandiere religiosa sporca di sangue. Quelli che scontano un’emarginazione culturale, una diffidenza a priori.
IL DOVERE DELLA CRONACA, PRIMA DELLA FUGA
Direttamente dal campo di battaglia la foto più eloquente è arrivata da Twitter. Un cinguettio in diretta che immortalava la guerra in atto. Ketevan Kardava, 36 anni, inviata speciale per la televisione pubblica georgiana, si trovava all’aeroporto di Zaventem, in attesa del suo volo di lavoro per Ginevra. Ma nessun volo c’è stato, per lei, travolta dal tritolo, nello scepio delle grida, del fumo, dei cadaveri e i feriti. Stava là, stritolata fra l’istinto di sopravvivenza e il senso del dovere: scappare o documentare? E ha prevalso, incredibilmente, l’istinto di professionista navigata, quello che spinge a raccogliere, informare, raccontare, anche in trincea. “Volevo solo correre in un luogo sicuro”, ha raccontato al Time, “ma volevo anche scattare delle foto. Era mio dovere farlo, come giornalista dovevo mostrare al mondo ciò che stava succedendo. Sapevo di essere l’unica reporter in quel posto”.
Ketevan ha fotografato, tra gli altri, Nidhi Chapekar, hostess della compagnia indiana Jet Airways: il suo volto, retwittato e condiviso all’infinito, è diventato il volto di tutte le vittime, il volto stesso della disperazione. Quella giacca gialla, il sangue e la polvere, i vestiti e brandelli e il busto scoperto, il volto stranito, il corpo abbandonato. L’esplosione l’aveva appena colta, su quella panchina. Pochi secondi dopo il trauma. E nella foga rapidissima di uno scatto, nella casualità del momento, nella concitazione intorno, l’orrore ha trovato momentanea presa dentro il perimetro di un’immagine via social.
LACRIME, SANGUE E POLEMICA
Si trovava in Giordana, Federica Mogherini, nel giorno dell’attentato a Bruxelles. L’Alto rappresentante per la Politica estera UE è intervenuta in conferenza stampa. Il volto provato, gli occhi gonfi, l’espressione affranta. “Questo è un giorno molto triste per L’Europa. Perché l’Europa e la sua capitale soffrono lo stesso dolore che questa regione ha conosciuto e conosce tutti i giorni, che sia in Siria o altrove”. E ancora: “Il messaggio che arriva da Amman, costantemente e con forza, per un Islam di dialogo, di pace e di cooperazione, è quello di cui abbiamo bisogno”. Poi, la voce rotta dalla commozione, le lacrime non trattenute e il gesto di sottrarsi, di voltarsi, cercando conforto tra le braccia del ministro degli Esteri giordano Nasser Judeh.
Immancabile l’ondata di critiche in Italia, soprattutto da parte delle opposizioni. Per Giorgia Meloni quelle lacrime sono la metafora della debolezza europea dinanzi al terrorismo islamico: ed è subito occasione ghiotta per chiedere (nientemeno) le dimissioni. Sui social impazzano i commenti di sarcasmo, i giudizi severi sul malinconico siparietto, le bacchettate per il mancato contegno. E soprattutto l’accusa di ipocrisia e inadeguatezza: chi rappresenta un’Europa complice, rammollita e satura di responsabilità, non ha il diritto di commuoversi. Teoria che odora di livore politico.
Lacrime di sofferenza? Lacrime colpevoli? Lacrime da stress? Impossibile sindacare, inutile discuterne. Quelle lacrime viaggiano sul confine fra la sfera della sensibilità privata e quella della formalità politica. Un fatto personale, per una volta inscritto sul piano dell’umanità (questa sconosciuta), nel corso di un evento tragico.
Eppure, non c’è cadavere che tenga, non c’è strage che induca alla cautela: ogni cosa, nella morsa cinica del web, si piega all’urgenza polemica, al bisogno di colpire, alla voglia di propaganda. L’orrore, in questo caso, si rivela nel classico caso mediatico nullo: inzuppato di retorica, gonfio d’ostilità, sciocco.
SALVINI DERISO DAL WEB
Il premio per il miglior sciacallo italiano va a Matteo Salvini, che la sua voglia di protagonismo proprio non è riuscito a trattenerla. E la risposta del web è stata esilarante. Il segretario della Lega Nord si trovava a Bruxelles durante l’attentato. Diretto verso l’aeroporto per tornare in Italia, è stato bloccato dalla polizia poco prima di arrivare a destinazione. Ed ecco la foga da reporter esplodere incontrollata via Facebook e Twitter. Salvini posta in diretta una serie di video messaggi e di fotografie, in cui immortala se stesso sui luoghi della tragedia, per una cronaca esatta condita da commenti e dettagli.
L’effetto “poser” è invitabile e la Rete non perdona. Scatta l’operazione sfottò (promossa in primo luogo dalla pagina Facebook “I marò e altre creature leggendarie”), con tanto di hashtag #salviniovunque e una valanga di memorabili fotomontaggi: la sagoma del nostro, malamente scontornata da una delle foto di Bruxelles, appare nei contesti più incredibili. Eventi storici, scene epiche, fotografie iconiche, guerre, meeting memorabili, persino la consegna dell’Oscar a Di Caprio, la Gioconda, l’allunaggio dell’Apollo, un concerto dei Beatles, Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo: lui c’è, sempre, col cellulare in mano, testimone fedele dei più straordinari set. Campagna sarcastica geniale, divenuta una sorta di gioco collettivo nel cuore del dramma. L’orrore qui si drammatizza, nella pioggia di meme impazziti e nel disprezzo per chi non governa la sete di passerelle mediatiche. Cadendo nel ridicolo.
L’ESERCITO DEGLI ILLUSTRATORI
Infine, un’altra pioggia di immagini, lievi e insieme incisive, concise e dure, tenere e commosse. Sono quelle sfornate da fumettisti, grafici, disegnatori, illustratori, artisti. Lanciate in rete come spunti di riflessione e gesti di solidarietà. Una sorta di #jesuisbruxelles, un remake triste di quanto accade a Parigi un anno fa, una nuova mobilitazione creativa, germinata fra le vie del web: tra le manifestazioni di cordoglio più affettuose, brillanti, misurate. E così è ovunque un tripudio di rosso, giallo e nero, bandiere del Belgio reinventate in mille forme, simboli, storie, frasi, vignette, personaggi. L’immagine dell’orrore, declinata fra l’amarezza ed il candore.
Helga Marsala
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