Silvia Pasello, un Lear dai molti colori
Grande prova d’attrice per la protagonista dello spettacolo di Roberto Bacci, che in ottobre sarà in scena alle Olimpiadi del Teatro di Wroclaw. E che interpreta il celebre personaggio maschile con una incredibile maestria.
OLIMPIADI POLACCHE
Romeo Castellucci, Heiner Goebbels e Krystian Lupa. Peter Brook, Robert Wilson e Jan Fabre: sono alcuni degli artisti invitati, nel prossimo mese di ottobre, alle Olimpiadi del Teatro di Wroclaw. Nel programma della grande manifestazione polacca ci sarà anche Lear di Roberto Bacci: un invito che da sé definisce il livello di questa imponente produzione al centro della quale, nel ruolo del titolo, è Silvia Pasello.
L’attrice due volte Premio Ubu, Premio Eleonora Duse, già interprete fra gli altri per Carmelo Bene, Thierry Salmon, Raul Ruiz, Virgilio Sieni e protagonista di molti spettacoli dello stesso Bacci incarna e rilancia, con magistrale precisione, il tema-chiave dello spettacolo: l’accerchiamento del vuoto.
LEAR È DONNA
Pare del tutto organica la volontà registica di affidare un personaggio maschile universalmente conosciuto a una donna (scelta in sé non nuova: basti pensare, per limitarsi a due celebri esempi shakespeariani, all’Amleto di Sarah Bernhardt nel 1899 e a quello di Angela Wilker per Peter Zadek, esattamente cento anni dopo): attraverso la tacita “sospensione dell’incredulità”, pre-requisito necessario a questa fruizione teatrale, fin da subito la Pasello diviene credibilissima Figura da conoscere e in cui “ri-conoscersi”, al di là del genere.
Con millimetrica precisione nelle articolate variazioni del corpo-voce, Pasello-Lear origina e subisce lo sfaldarsi dei legami familiari e sociali. Sconsolata e feroce, incattivita e predicatoria, fragile e pericolosa, febbricitante ed egocentrica è attorniata da sette bravi attori, sui quali svetta per intensità e maestria Savino Paparella, vocalità tellurica e corpo offeso.
Stanno in un grande spazio scenico vertiginosamente vuoto, paradossale “correlativo oggettivo” del tòpos dello spettacolo: attraversato da sette sipari in tyvek dipinti di tinte terrigne, messi in movimento senza posa dagli attori stessi a velare e svelare Figure e soprattutto baratri. Questa sorta di screen à la Gordon Craig rende lo spazio stesso movimento. Che crea, e al contempo attornia, il vuoto. Come un compasso.
A tratti le Figure agiscono, o semplicemente “stanno”, al di fuori di esso: ennesima marcatura di un luogo che si fa Nulla, di “un vuoto che si svuota”, e al contempo messa in evidenza del dispositivo, della finzione. Per dichiararne, forse, l’impossibilità.
ACCERCHIARE IL VUOTO
“La mancanza mi fa più ricca” suggerisce Cordelia, figlia ripudiata di Lear (interpretata dall’attenta Maria Bacci Pasello): sintesi di una tensione alla sottrazione, propriamente scultorea, che informa di sé ogni elemento dello spettacolo, comprese le rarefatte ed efficaci musiche percussive di Ares Tavolazzi, drammaturgicamente intrecciate a suggestivi canti del Seicento interpretati da alcune persone (dunque maschere, secondo l’etimo e la regia) in scena.
Un frammento di un saggio di qualche anno fa dello storico del teatro Roberto Alonge, dedicato ad Adelaide Ristori, pare perfetto per riassumere queste brevi note: “Ciò che viene fuori – diciamolo conclusivamente – è il lato notturno del teatro, la sua dimensione demoniaca, la sua trascinante forza di seduzione, che travolge e uccide gli innocenti prima ancora dei colpevoli. Al di là delle intenzioni, l’interprete rischia di risultare un’incantatrice diabolica che, manipolando un testo sulfureo, cattura il pubblico perché ne solletica e ne sollecita i fantasmi sepolti”.
Presenza fantasmatiche, mancanze, accerchiamento del vuoto: questo feroce e solido Lear a Wroclaw sarà in buona compagnia.
Michele Pascarella
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