Elogio dell’ombra. La nuova monografia di Antonio Marchetti Lamera
L’artista lombardo Antonio Marchetti Lamera raccoglie un’ampia documentazione della sua più recente indagine pittorica in un volume, fresco di stampa, curato da Angela Madesani e progettato da Armando Milani. Confermando un approccio al reale che parte dallo strumento fotografico per giungere infine alla pittura.
Antonio Marchetti Lamera (Torre Pallavicina, 1964,) predilige la pittura cercando un dialogo costante tra un’indagine aniconica e un dialogo con la realtà, che declina mediante un’osservazione ravvicinata e costante delle ombre, quelle più impercettibili, appartenenti al quotidiano. D’altronde, come ribadisce Angela Madesani, nel suo testo, Marchetti Lamera è un osservatore, e ciò è emerso a chiare lettere nella recente mostra ospitata nella Nuova Galleria Morone di Milano.
La sua monografia si intitola Raggi ombrosi. Perché?
Raggi ombrosi è il titolo dei miei ultimi lavori. È un omaggio a Leonardo da Vinci, che definiva con tale ossimoro le ombre. Queste ultime, a detta del grande artista rinascimentale, sono privazione di luce poiché allontanano i raggi luminosi ed emettono raggi ombrosi, che si allargano nell’aria e sono di tante varietà, quante quelle delle ombre originali da cui derivano.
Da molti anni la sua ricerca indaga un distillato di realtà, che però si astrae grazie a un processo creativo che include altri linguaggi per poi approdare alla pittura. Quali sono gli step che precedono la nascita di un dipinto?
La pittura per me è solo uno strumento all’interno di un sistema di regole definite, che con un uso prolungato può determinarsi come tale, come direbbe Rosalind Krauss. Il mio processo creativo ha inizio con la fotografia, prosegue con un lavoro manuale, che include nelle sue fasi intermedie principalmente il disegno.
Perché sceglie la fotografia come linguaggio primario di studio della realtà?
La fotografia è il mezzo più idoneo a catturare e rendere immobili le ombre che depongono al loro interno una sorta di mobilità latente, la quale contiene virtualmente tutte le velocità, le spegne e le custodisce. In sintesi, la fotografia impedisce al tempo di scorrere e mi permette di passare alla fase successiva del mio lavoro che definirei “disegno mobile”; le forme possono dirsi in continuo divenire; si sovrappongono, si scompongono, interagiscono tra loro, diventano trama di un racconto, un’animazione, come dei fotogrammi di una realtà che muta ogni istante il proprio aspetto; un mondo che si pone tra il visibile e il dissimulato. È una riflessione sulla mutevolezza inarrestabile dell’ambiente attraverso il variare delle ombre.
Il volume è curato da Angela Madesani, critica d’arte che segue il suo lavoro da molti anni. Immagino quindi che il libro sia il frutto di un lavoro comune. Com’è andata?
Angela Madesani, oltre a essere la curatrice con cui collaboro da anni, è una mia carissima amica; credo sia fondamentale stabilire solidi rapporti umani prima che professionali. So che sembra un’utopia in uno mondo dell’arte sempre più caratterizzato dall’individualismo, ma il legame con Angela dimostra che è possibile. Con lei ho condiviso ogni passaggio del libro fin dalla sua origine.
Che ruolo hanno la critica d’arte e la curatela nel percorso di un artista e nel suo lavoro in particolare?
Sempre più assistiamo a una sorta di ribaltamento dei ruoli; il curatore, senza volerne sminuire l’importanza, molto spesso, decide della visibilità di un artista nelle mostre, e conseguentemente della qualità del suo lavoro. Credo sia fondamentale ristabilire un equilibrio tra le parti.
Da qualche anno è anche sindaco a Torre Pallavicina, dove nel Palazzo Barbò, con la curatela di Angela Madesani, avete proposto mostre d’arte contemporanea di ampio respiro. Ci può raccontare qualcosa in più di questa esperienza?
Quella che sembrava la follia di un artista prestato al senso civico si è trasformata nella realtà più tangibile. Le splendide sale di questo palazzo rinascimentale, dall’inizio del mio mandato, ovvero dal 2011, sono diventate un importante spazio espositivo. Alla mostra inaugurale dedicata a Piero Manzoni – artista nato a pochi chilometri da Torre Pallavicina – per il cinquantesimo anno della sua morte, curata da Alberto Dambruoso, ne sono seguite altre quattro, sotto la direzione di Angela Madesani.
In ordine temporale sono passati Maurizio Donzelli, Massimo Minini con una mostra di fotografie della sua collezione privata, Piero Almeoni e quest’anno, a chiusura del mio mandato, una mostra in collaborazione con Hélène de Franchis di Studio la Città di Verona. Sempre più questo edificio si configura come luogo ideale per lanciare sfide ad artisti e galleristi che, stregati da tanta bellezza, sono ben felici di cimentarsi con i suoi spazi inventando nuove proposte di allestimento, dove passato e presente convivono in perfetta armonia.
Lorenzo Madaro
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