Sartoria Farani. L’arte del costume nel cuore di Roma
Il made in Italy non è solo in passerella. La tradizione del saper fare artigiano è anche storia del costume, che nel cinema e nel teatro trova il palcoscenico ideale per esprimersi ad arte. Nel cuore di Roma, la sartoria fondata da Piero Farani, e oggi diretta da Luigi Piccolo, conserva i segreti di un mondo incantato. Fatto non solo di ago e filo, ma di cultura e passione per il bello.
Tra stoffe, ricami, macchine da cucire e sarte dalle mani di fata, la Sartoria Farani, nel cuore di Trastevere a Roma, è il simbolo dell’eccellenza italiana nella storia del costume. Un racconto, quello del made in Italy, troppo spesso associato alle passerelle e ai nuovi trend. Ma, guardando oltre ciò che propongono le riviste patinate di moda, si possono scoprire tesori nascosti, ricchi di cultura e passione per il bello e ben fatto.
Nata con lo speaker radiofonico Piero Farani, la sartoria è oggi diretta da Luigi Piccolo, che ne conserva l’heritage attraverso un meticoloso lavoro di ricerca e restyling che guarda sì alla memoria, ma in chiave evolutiva, tramandando la delicata arte del saper fare un costume.
Dall’Oscar del 1969 per i costumi a Danilo Donati con il film Romeo e Giulietta di Zeffirelli alla sperimentazione con quelli di Barbarella, che figurano nei manuali di storia della moda, passando per I clown e Casanova di Fellini, la giacca di lana di Totò in Uccellacci e Uccellini e gli abiti medievali della coppia Benigni–Troisi in Non ci resta che piangere. Fino alle creazioni per Dune di David Lynch nel 1984 e ai più recenti film di Sofia Coppola e Tim Burton.
In questa intervista, Luigi Piccolo ci parla di un mondo troppo spesso sconosciuto, ma che regala piacevoli e inaspettate sorprese.
Partiamo dal connubio tra cinema e costume. Quando hai scoperto di avere una passione per questo mondo?
Ho innanzitutto una passione innata per il cinema che ho trasmesso al mio nipotino di dieci anni, che ci va da quando ne aveva due e ha anche una cultura cinematografica non indifferente. Facendo questo lavoro è un po’ come rubare a casa dei ladri. La folgorazione è arrivata con 8 e ½ di Federico Fellini.
All’epoca i film erano vietati ai minori di 14 e 18 anni, io ne avevo circa 12 e da friulano andai con un mio amico a un cinema locale. Ci fecero entrare, ho visto il film, e ho detto al mio amico: “Io non ho capito niente, ma è la cosa più bella che abbia mai visto”. Sono arrivato a Roma negli Anni Ottanta per lavorare nella sartoria Gp 11, dove la prima cosa che ho ammirato sono stati i costumi di Giulietta degli Spiriti di Fellini.
Com’è nata, invece, la Sartoria Farani?
La sartoria nasce nel 1962, il fondatore era Piero Farani, emiliano di nascita che poi si trasferì a Torino per lavorare in radio perché era dotato di una particolare timbrica vocale. Tra gli Anni Quaranta e Cinquanta, Roma era una tappa obbligatoria, la Hollywood sul Tevere. È il periodo delle grandi produzioni cinematografiche e Farani fece la comparsa in alcune pellicole con un iniziale percorso artistico personale.
Io gli chiedevo sempre: “Farani, mi racconta la storia della scalinata di piazza di Spagna?”. Attorno a Trinità dei Monti, infatti, gravitava il mondo degli atelier romani. La scena delle sartine che col camice riempivano la piazza all’ora di pranzo, come nel celebre film Le ragazze di Piazza di Spagna, è indimenticabile e mi affascinava. Lì Farani conobbe i grandi del cinema e del teatro come Paolo Poli, Gian Maria Volonté, Franco Zeffirelli, Giancarlo Cobelli.
Attraverso quali collaborazioni sono arrivati i primi successi e la notorietà?
A metà degli Anni Cinquanta Piero Farani accompagna l’amico costumista Danilo Donati nella sartoria Annamode, atelier di moda che collaborava saltuariamente con il mondo dello spettacolo. Lì avviene la conversione e gli viene chiesto di lavorare per la sartoria, dove rimase per sei anni come direttore. Nel 1962 a Roma c’è molto lavoro, viste le produzioni cinematografiche e, grazie all’amicizia con Donati, e con Pier Paolo Pasolini (sono gli anni de La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo) arriva la notorietà.
Farani apre quindi la sartoria a viale Mazzini e, tranne che per Medea, i cui i costumi sono di Piero Tosi, la collaborazione con Pasolini è stata fondamentale. Alla fine degli Anni Settanta, il cinema italiano in costume inizia a diminuire per poi scomparire tanto è vero che oggi lavoriamo principalmente con l’estero, tranne episodi sporadici come l’ultimo film di Matteo Garrone, Il Racconto dei racconti, che per i costumi ha vinto di recente il David di Donatello.
Cinema in costume in crisi. Qual è stata l’alternativa?
Ci si è orientati verso la lirica e la prosa, il mondo del teatro. Negli Anni Sessanta, però, Studio Uno, Canzonissima, Scala reale, i programmi del sabato sera e gli sceneggiati televisivi erano il pane quotidiano per la sartoria, con il boom economico e l’esplosione del mondo della televisione.
Come inizia, quindi, la tua carriera a Roma?
Io sono arrivato nel 1982, studiavo Lettere a Padova e vivevo a Venezia. Nel 1978 lì hanno ristrutturato e riaperto il Teatro Goldoni, ed è stato uno dei primi casi di ricostruzione filologica, mettendo in scena La Locandiera per la regia di Giancarlo Cobelli. Volevo fare il restauratore, disegnavo bene, illustravo fumetti. Cobelli mi ha chiesto di venire a Roma. Paolo Tommasi, scenografo e costumista di Cobelli, mi telefona per chiedermi di venire nella Capitale, a fare cosa ancora non sapevo. Così sono approdato alla sartoria Gp 11, l’attuale The One, dove lavorava Gherardi.
Dopo due anni Cobelli mi organizza un incontro con Farani a casa sua. Faceva ventagli con gli strass per le sorelle Fendi e mi ha detto senza troppi giri di parole che cercava qualcuno che mandasse avanti la sartoria quando non ci sarebbe stato più, perché nella sua famiglia non c’erano eredi interessati al mestiere. Con l’incoscienza dei vent’anni ho accettato, poi ho pensato: “Ma devo ridurmi a fare ventagli con le piume di sabato?”. Poi ho fatto ben di peggio.
Veniamo ai nostri giorni. Le vostre collaborazioni sono sempre più internazionali…
Oggi in tutti i settori si lavora a livello globale, perché da questo punto di vista si sono accorciate le distanze. Lavoriamo molto con il Giappone, dove non hanno sartorie artigianali e manca questo tipo di cultura. Abbiamo collaborato con Sofia Coppola per Marie Antoinette e poi con Tim Burton, per il sequel Alice through the looking glass e per il prossimo film La casa per bambini speciali di Miss Peregrine. Lavorando spesso con La Scala di Milano abbiamo conosciuto Colleen Atwood, la costumista di Burton, che si è innamorata del nostro metodo di lavorazione. E poi Il cacciatore e la regina di ghiaccio, e il prequel di Harry Potter, in fase di realizzazione, con il Premio Oscar Eddie Redmayne.
Bandiera italiana nel mondo cinematografico e teatrale. Che cos’ha la nostra tradizione sartoriale da essere così tanto richiesta all’estero e – perché no? – invidiata?
L’artigianato. Semplicemente e banalmente l’artigianato. Ad esempio ora stiamo lavorando a una Tosca per l’opera di Cincinnati perché il costumista americano, conosciuto due anni fa a Tokyo, ci ha commissionato la realizzazione dei costumi.
Sul piano internazionale, quali sono i competitor diretti degli italiani nel mondo del costume?
All’estero c’è rimasto solo Cornejo in Spagna, una vecchia sartoria che ha avuto la lungimiranza di incamerare molto materiale. Negli Anni Ottanta guardavo con la bava alla bocca l’Atelier des costumes de Paris, che è durato poco perché creava dei capolavori, rigorosamente realizzati tutti a mano, senza macchina da cucire. Quindi puoi immaginare… Poi ciò che è rimasto è stato acquistato da Cornejo. A Londra, invece, c’è Angels, sartoria storica ma, molto spesso, i costumisti che vengono da noi mi dicono che preferiscono l’artigianalità italiana.
Che fine fanno i costumi, una volta terminate le riprese di un film o conclusosi un tour teatrale?
Gli americani in genere li comprano, perché prevedono di far girare lo spettacolo per almeno dieci anni. Da noi dopo quindici giorni tornano gli scatoloni con i costumi che poi restano in magazzino, salvo tirarli fuori, quando è necessario, per mostre e pellicole occasionali.
Qual è l’età media della persone che lavorano in sartoria?
Uno degli aspetti più affascinanti di questo lavoro è che non c’è una regola. Al momento l’età media si è abbassata. Ho trovato molti giovani volenterosi disposti a fare questo mestiere, dieci anni fa ero disperato.
Sei anche insegnante di Storia del Cinema allo IED di Roma. Noti interesse da parte dei tuoi allievi verso il mondo del costume più che per il mondo della moda, visto che, tra i banchi di scuola, molti aspirano a diventare stilisti affermati?
Da noi in sartoria c’è un ragazzo sardo, si chiama Matteo, che voleva fare lo stilista, poi venne a fare uno stage e l’ho corrotto [sorride, N.d.R]. Ai ragazzi a cui insegno Storia del Cinema allo Ied di Roma dico sempre: “Venite in sartoria, osservate”, anche perché il posto di lavoro per tutti come direttori creativi nelle grandi case di moda non c’è. Cerco di spiegare ai miei allievi che fare il sarto non è una professione umiliante, come invece troppo spesso si pensa, è un lavoro meraviglioso.
Perché, secondo te, c’è un ancora un forte pregiudizio nei confronti del mestiere del sarto? Se lo chiamassimo “dressmaker” sarebbe diverso? Avrebbe più appeal?
Manca l’educazione al mondo della sartoria. I termini inglesi un po’ mi infastidiscono e dall’altra parte ai miei ragazzi dico sempre di documentarsi. Così come per il mondo della cucina, se fai lo chef, considerando quello che passa oggi a livello mediatico, sei una star. E secondo me è troppo.
Ai miei allievi, ad esempio, partendo da un film in bianco e nero, faccio capire che è possibile entrare nel vivo della storia del costume e notare come Marlon Brando, con t-shirt sporca e cappellino in Un tram che si chiama desiderio, è un’icona che troveremo nei primi Anni Ottanta nelle foto di Bruce Weber, Herb Ritts e nella moda Giorgio Armani. “Bianco e nero” non vuol dire vecchio e obsoleto, anzi, c’è un fascino che il colore non ha. Non si possono saltare passaggi fondamentali del mondo cinematografico che sono stilisticamente molto importanti come À bout de souffle con Jean-Paul Belmondo. La cultura, per diventare bravi professionisti del settore, è tutto.
Verso cosa si evolverà la Sartoria Farani in futuro?
Vorrei che continuasse a fare quello che ha sempre fatto. Ho ricevuto proposte di cambiamento, come lavorare per il mondo della moda e per grandi stilisti. Ma abbiamo poco in comune. In passato c’è stata una grande collaborazione con il maestro Roberto Capucci, i suoi abiti sono opere d’arte. Adesso stiamo lavorando ai costumi de Le nozze di Figaro con Maurizio Galante, allievo di Capucci.
Gustavo Marco P. Cipolla
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