MELA REINTEGRATA: PERCHÉ?
Imbarazzante. Difficile descrivere con altre parole l’opera piazzata nei giorni scorsi davanti alla Stazione Centrale di Milano. Ti assale lo sgomento, sembra un mix tra una citazione – venuta male – dell’installazione cyber-glam Wave UFO, presentata da Mariko Mori alla Biennale veneziana del 2007, e una riproduzione del logo della Apple realizzato in cartapesta per un luna-park trash. Al suo cospetto, la dirimpettaia scultura raffigurante papa Wojtyla a Roma Termini fa un figurone; di più: meriterebbe di essere difesa dall’Unesco.
Brutta pure concettualmente (le mele al genere umano piace morsicarle, che vogliamo farci?), la Mela reintegrata (già il titolo fa accapponare la pelle) è opera di fronte alla quale viene spontaneo fare due cose. La prima, chiudere gli occhi; la seconda, chiedersi come sia stato possibile per un tale oggetto finire nella hall di una città importante come Milano. Proviamo allora a capire perché accadono cose del genere. Senza fare del qualunquismo anti-sistema, ponendo un problema specifico.
I SENATORI A VITA DELL’ARTE
Il problema è il seguente. Ci si lamenta tanto dei vitalizi (pecuniari) attribuiti ai politici, ma mai abbastanza dei vitalizi critici di cui beneficiano molti artisti, i cui effetti possono rivelarsi altrettanto dannosi per la società tutta. Il mondo dell’arte contemporanea, in particolare, pullula di senatori a vita (metaforicamente parlando, s’intende). Artisti che hanno conosciuto un momento di celebrità trenta o quarant’anni fa – e che magari sono finiti nella storia per un determinato gruppo di opere, o in relazione a una specifica congiuntura storico-critica – diventano pressoché automaticamente degli intoccabili per il resto del tempo. Per loro c’è troppa carta bianca, li si omaggia a prescindere, quasi si trattasse di una questione di rispetto dovuto.
Evidentemente si pensa – sbagliando – che, avendo fatto qualcosa di buono nel passato, vada necessariamente bene anche ciò che di tutt’altro che buono propongono al momento, o vanno facendo da tempo – e che spesso è così tanta roba da subissare, quando non inficiare, anche il buono fatto illo tempore.
Ciò non è ammissibile. Per una ragione ovvia, oltre che ferrea: perché l’arte è l’opposto della burocrazia, e della gerarchia; è cioè quel luogo, anzitutto dello spirito – nel senso “duro” del termine –, in cui concetti come “anzianità di servizio” e “rendita di posizione” non possono avere alcuna rilevanza; e in cui anche il nome affermato e in età avanzata, nel momento in cui realizza un’opera è come se si facesse – ogni volta – nuovamente incontro al giudizio del pubblico e della critica.
LA NECESSITÀ DI UNA CRITICA ATTIVA
Di chi la responsabilità di tale situazione? Per me, di una pubblicistica specializzata che troppo spesso di fronte al nome (anche solo un filo) altisonante incensa, tace o si limita a descrivere – producendo note informative in forma di recensioni, resoconti invece che interventi critici, come per una sorta di riflesso pavloviano. E che invece farebbe bene (il bene dell’arte sicuramente) a comportarsi diversamente. Come? Andando a considerare un semplice concetto di base, quello per cui esercizio della critica e sudditanza psicologica sono categorie che non possono che trovarsi agli antipodi.
Che poi basta guardarsi un po’ intorno, per capire quanto sia insensato – oltre che ormai anacronistico! – un atteggiamento di accondiscendenza aprioristica di fronte al prodotto artistico. Dove? Dalle parti – ad esempio – dei cugini della critica musicale. Sì, perché con la musica non la si passa liscia tanto facilmente. Ex protagonisti bolliti e fior di band leggendarie che pur di rimanere a galla sfornano prove imbarazzanti, o anche solo inutili, vengono – giustamente – redarguiti da una critica che, proprio per il rispetto che portano a coloro di cui parlano, non si esime dal far rilevare la pochezza del lavoro prodotto da chi non ha più nulla di interessante da dire, e quindi da aggiungere al proprio curriculum.
BASTA CON IL LAISSEZ-FAIRE
Insomma, c’è da abolire l’(assurdo) istituto del vitalizio critico nell’arte contemporanea – inesistente in teoria ma vigente eccome nella realtà. Possibilmente alla svelta. Perché, ammettiamolo, non se ne può più del laissez-faire che consente al mostro sacro di turno di farla franca a prescindere.
Nel frattempo, non resta che sperare nella pronta rimozione di un’opera involontariamente horror quale è quella che attende coloro che per raggiungere Milano scelgono di servirsi del mezzo ferroviario.
Pericle Guaglianone
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