Pizzo Sella, la collina del disonore. Dopo la mafia, gli artisti
Palermo, storie di abusivismo, criminalità organizzata, amministrazioni corrotte. Storie di paesaggi deturpati e di sanatorie eccellenti. Pizzo Sella è un luogo assurdo. Su cui alcuni artisti oggi stanno riportando l’attenzione. E la polizia è arrivata, a punire proprio loro, nel cuore di una zona consacrata all’illegalità.
L’ECOMOSTRO DI COSA NOSTRA. PIZZO SELLA STORY
La chiamano “la collina del disonore”. E mai definizione fu più efficace. L’immagine della vergogna, a Palermo, si concentra in questo perimetro opaco. Il paesaggio devastato dal malaffare, l’abusivismo come vocazione, i tentacoli della Piovra intorno a luoghi, destini, infinite catene di relazioni. Il male, da queste parti, trova a volte sembianze surreali, che diventano simboli per sempre, icone al contrario. Inamovibili, irredimibili.
Pizzo Sella è un promontorio brullo, proteso sullo splendido golfo di Mondello. Un frammento di natura baciato dal sole. Ma Pizzo Sella è anche un ecomostro, incastonato tra le linee dolci della Conca d’Oro. Qui, come metastasi di cemento, se ne stanno 170 villette, edificate quarant’anni fa al di fuori di ogni regola e logica. Una deturpazione spregiudicata del territorio, che sfida l’occhio e il buon senso con arroganza. Quei lotti, per cui il Comune rilasciò le concessioni nel lontano 1978 e che in parte vennero acquistati da ignari cittadini, erano il frutto di affari criminosi. Ennesimo bottino di un prolifico business.
VIETATO DEMOLIRE
Siamo già oltre il celebre “Sacco di Palermo”, il boom edilizio che tra gli Anni Cinquanta e Sessanta stravolse l’assetto della città, tra interessi loschi. Nel 1962 arrivò il piano regolatore, ma il patto di ferro tra Cosa Nostra, politica locale e costruttori non si fermò.
Dietro Pizzo Sella c’era la famiglia del boss Michele Greco. Alla sorella di lui, Rosa Greco (moglie del costruttore Andrea Notaro) era infatti intestata la Sicilcalce, società che ottenne il permesso di edificare. Nel 1984 un primo rapporto dei Carabinieri fece luce sullo scandalo: abusivismo edilizio, abuso d’ufficio e corruzione furono i reati individuati. E la slavina di fango travolse progettisti, imprenditori e funzionari pubblici.
Seguirono anni di indagini e scontri in tribunale. Nel 2001 un’unica sentenza della Cassazione decise per la confisca e la demolizione delle villette. Ma le associazioni ambientaliste non fecero in tempo a brindare. Nessuna demolizione è mai avvenuta e la confisca è durata qualche anno appena. L’ultimo atto è arrivato nell’ottobre 2015, con la sentenza definitiva, al termine di quindici anni di traversie legali: grazie al ricorso presentato da una dozzina di famiglie, fra le 67 residenti, è stato riconosciuto ai proprietari il diritto alla restituzione degli immobili. L’acquisto era avvenuto in buona fede. Sequestro dunque revocato e obbligo di risarcimento economico da parte del Comune, unico responsabile per via di quelle illegittime concessioni.
ARTE E ARCHITETTURA, PER LE INCOMPIUTE D’ITALIA
Nel tempo, naturalmente, ci si è interrogati sulle sorti di questo angolo di paesaggio. Che fare dei 170 corpi impropri, la maggior parte dei quali rimasti incompiuti? Abbattere o riqualificare? E che destino immaginare, in generale, per le tante, troppe incompiute disseminate per l’Italia e in larga parte concentrate in Sicilia?
Dieci anni fa il collettivo artistico Alterazioni Video s’inventava un progetto in progress – che era anche un paradosso, una provocazione, un insieme di opere e di appuntamenti espositivi – dal titolo Incompiuto Siciliano. Oltraggiato, deturpato, violentato da inutili colate grigie, lo Stivale diventava un immenso teatro dell’assurdo, elevato ironicamente a exemplum estetico. L’Incompiuto Siciliano – che dal primato isolano prendeva il nome – si rivelava come vera e propria maniera architettonica. Uno stile. Metafora di un Paese intero.
Una cosa che accade sovente, del resto. L’arte, dinanzi ai buchi neri e i cortocircuiti del suo tempo, s’inventa delle risposte. Esercizi di libero pensiero, consacrati al gioco, all’utopia, all’indagine intellettuale, all’immaginazione. Che la ricaduta sia concreta o solamente simbolica è un fattore secondario. Quel che conta è l’atto coraggioso di uno slittamento, il recupero dello stupore.
Nel 2007 l’Ordine degli Architetti di Palermo lanciò un concorso di idee per la riqualificazione di Pizzo Sella. A vincere furono gli architetti Paolo Venturella, Rita De Simone, Leonarda Chirco, Emanuele Guglielmi, Roberto Biondo, Domenico Arrostuto. Giudicata non percorribile l’opzione della demolizione, il team si concentrò su un piano virtuoso per facilitare i collegamenti tra Mondello e la collina, installando in situ ascensori verticali a basso impatto visivo e trasformando otto abitazioni in rifugi. Incrementati, infine, i percorsi naturalistici, in accordo col contesto paesaggistico della riserva di Capo Gallo.
Nulla, chiaramente, venne mai realizzato. Ma un interessante potenziale emerse da quell’iniziativa, risvegliando il dibattito e innescando riflessioni fuori dall’ordinario.
PIZZO SELLA ART VILLAGE
E però, questo cimitero di scheletri edilizi, questa strana città fantasma disseminata di cadaveri architettonici, pare essere una calamita per gli artisti. Nuove incursioni creative sono arrivate di recente. Stavolta – rispetto all’esperienza del 2007 – tutte concrete e del tutto illegali.
Nel 2013 vede la luce Pizzo Sella Art Village, un museo a cielo aperto edificato in un punto nascosto della collina. Cinque villette, tra quelle rimaste sotto confisca, vengono scelte come area d’intervento dal collettivo palermitano Fare Ala. “Un nuovo spazio di intrattenimento per tutti i tipi di famiglia”: così lo definiscono gli ideatori, giocando con il format del classico parco di divertimenti.
Dentro un limbo intitolato all’abuso, la linea dell’illegalità diventa unica via d’accesso e di fuga. Come agire, in un luogo che non c’è? Come operare una rottura, nello spazio degenerato di un sequestro permanente? Essendo essi stessi – gli artisti – dei fantasmi in azione. Sparire, scegliendo vie non ufficiali e circuiti silenziosi, per esistere là dove la morte è al lavoro, da quasi mezzo secolo.
In realtà si tratta (saggiamente) di muoversi su un piano del tutto immateriale: quello della conoscenza, della scoperta e della comunicazione. Nessun’opera d’arte firmata Fare Ala, laggiù, a parte l’operazione stessa di creazione e promozione del “villaggio”.
“Pizzo Sella è una sorta di lavagna su cui lasciare dei messaggi. Il nostro ruolo? Fare da cassa di risonanza per il potenziale comunicativo di questo posto straordinario”, ci ha spiegato Roberto Romano, membro del collettivo. “Abbiamo esplorato il sito da cima a fondo, ne conosciamo ogni piega e sappiamo come giungere a Pizzo Sella Art Village passando per un determinato sentiero. Accade dunque che gli artisti che vogliano scattare delle foto o realizzare dei murales, ci chiamino per capire come arrivare”. Un po’ ricercatori, un po’ stalker, i Fare Ala hanno di fatto generato un luogo nuovo e su di esso stanno veicolando attenzione mediatica. Non senza conseguenze.
SE A PAGARE SONO GLI ARTISTI. IL BLITZ DELLA POLIZIA
Lo scorso 16 maggio undici street artist erano all’opera dentro due villette dell’Art Village. I loro lavori si andavano ad aggiungere a quelli realizzati in precedenza, con una certa coerenza formale, da autori come Nemo’s, Collettivo FX, I mangiatori di patate, Ema Jhons: una serie di apparizioni forti, immateriali, distribuite a sorpresa in mezzo al niente.
A fermare gli artisti, stavolta, ci ha pensato però la polizia, avvisata da alcuni residenti e dal custode. Colori e pennelli sequestrati e denuncia di gruppo. L’accusa? “Danneggiamento, con l’aggravante di aver operato all’interno di un bene sequestrato”.
Vano il tentativo di spiegare i propri intenti, di esplicitare il valore del progetto. Quei muri dipinti, per l’autorità, sono uno scandalo nel cuore del più scandaloso dei luoghi.
“Stiamo ricevendo minacce”, aggiunge Roberto. “Per chi abita lì siamo dei vandali. Ma dalle loro case il villaggio non è nemmeno visibile. In realtà vogliono che non si parli di Pizzo Sella. Temono che il problema si sollevi di nuovo e un po’ si sentono padroni del posto. Certo è assurdo che una montagna diventi una sorta di condominio, con un portiere che vigila sull’unica strada d’accesso. Lui decide chi entra e chi no. Un pezzo della riserva naturale è stata privatizzata”.
Pizzo Sella Art Village si innesta allora in un’area tanto ambigua quanto potenzialmente sovvertibile e sovversiva. Un posto che ha una storia fosca, ma che nel segno di questa storia si fa monumento di se stesso, metafora violenta e – perché no? – oggetto poetico ed esperimento estetico.
E ripensando all’intelligente operazione di Alterazioni Video, o all’installazione non invasiva tra arte e botanica avviata da Mimmo Rubino e Angelo Sabatiello nel quartiere romano di Corviale, torna un’idea di stratificazione storica, di seduzione irregolare, di riconversione concettuale. Ripartire da siti come questi, che trovano un’identità nella propria condizione di marginalità, di fallimento, persino di mostruosità, significa non sempre e non solo negarli tout court, ma comprenderli. Sollecitando degli spostamenti.
E dunque: demolire? Riconvertire? Intervenire con gentilezza? L’interrogativo permane, soprattutto in presenza di uno scempio naturalistico, mentre le risposte cambiano in relazione ai contesti. E dovrebbero essere le istituzioni a cercare una soluzione. Magari inaugurando dei tavoli con gli artisti, gli architetti, i residenti stessi, fra spunti teorici, tecnici, visionari.
A restare, oggi, è infine il paradosso di un’azione repressiva contro una manciata di murales, proprio là dove l’illegalità si è fatta casa, destino, pratica quotidiana e istituzionalizzata. Per il codice penale il fatto sussiste. Ci sta. A fronte di una segnalazione le forze dell’ordine intervengono, secondo la legge.
Ma è agli inquilini di Pizzo Sella che la questione andrebbe posta: l’infinita battaglia per tornare in possesso delle proprie casette dell’orrore, quale consapevolezza ha generato? Se tra le pagine di un romanzo criminale il nemico diventa un piccolo, effimero progetto artistico di valore, qualcosa su quel piano non ha funzionato. Quarant’anni di passione, per finire dalla tragedia alla farsa. Le denunce agli artisti, un po’ di villette riconsegnate, decine di scheletri in stato d’abbandono, il Comune che probabilmente non risarcirà (“danno incalcolabile”, dicono gli avvocati), non demolirà e non riqualificherà. E Michele Greco che se la ride, dall’inferno dei boss.
Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati