Critica come fraternità (reprise): Cristian Chironi
E no, la serie non poteva finire. Gli artisti-fratelli sono, ovviamente, più di otto, e altri se ne aggiungono via via: la critica segue a ruota. Riprendiamo dunque il filo del discorso, e ripartiamo da Cristian Chironi, dal suo approccio e dal suo ultimo progetto creativo a Cagliari: “The Cave”.
… in certo modo, nelle vie di Londra, nella gran marea
delle cose, qui, là, ella sopravviveva, Peter sopravviveva,
e vivevano uno nell’altro, e lei era parte – l’avrebbe giurato –
degli alberi a Bourton; di quel brutto casamento laggiù,
trasandato e tutto pezzi e bocconi; parte di gente
che non aveva mai visto al mondo; …
Virginia Woolf, La signora Dalloway (1925)
Lo spazio è trattato come un collage (fronte > retro > scarto): è tutto fatto con le scorie di qualcos’altro.
Questa stessa immensa cava è, in fondo, uno scarto – è stata svuotata innanzitutto per estrarre e ricavare il materiale da costruzione che è servito a edificare il castello qui sopra. L’allestimento fisso, così pesante, invece di essere nascosto è stato evidenziato da The Cave, il nuovo progetto di Cristian Chironi (Nuoro, 1974). È inserito all’interno di un assemblaggio ambientale e tridimensionale: questa strana mostra-non mostra all’inizio non si vede neanche (ed è qui il suo fascino), ma c’è ed è potente.
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Rigenerazione rinascita fertilizzazione ricostruzione.
Orizzontalità (invece che gerarchia verticale); apertura; inclusione; accoglienza.
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La memoria si sedimenta: stratificazioni: strati e strati che si sovrappongono e che si intersecano, come fanno i ritagli nei collage. È un lavoro ammirevole, perché di fatto è come se Cristian avesse usato un gigantesco taglierino spaziale e mentale, con cui assemblare pezzi di grotta, di struttura espositiva preesistente, di memoria, di sue opere (i collage riportati su PVC): un collage nel collage nel collage.
Un’operazione tutta giocata sul filo del vuoto, tutta sospesa nel vuoto, in bilico sul vuoto. Scansione; irregolarità; una griglia, e poi i piccoli lavori più interessanti saltano fuori alla fine di questi passaggi schematici. Meccanicità, meccanismo, processo, percorso, vita, esistenza, biologia.
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Cristian allestisce un percorso attraverso la storia della comunità cagliaritana, che diventa una cosa viva – condensata. Che cos’è infatti che differenzia profondamente questo progetto dalla miriade di mostre “sulla città”, “sullo spazio urbano”, “sull’identità cittadina”? Proprio questo fattore esistenziale: il fatto che città, spazio, identità sono cose vissute – e non semplicemente viste, lette, percepite. L’interrogazione continua di Cristian (quattro mesi: non quattro giorni, o due settimane; quattro mesi vissuti dentro questa spelonca, costruendo un’esperienza unica, organizzando continuamente laboratori e conversazioni, praticando un coinvolgimento vero e non presunto: i ragazzi e le ragazze sono diventati suoi amici, l’affetto lo potete toccare, le relazioni e i processi non sono fanfaronate e voli pindarici, quando sono veri sono vita, generano altra vita e conoscenza) equivale allo scavo nello spazio, dello spazio – “cantiere sotterraneo”, lo chiama lui.
Questa grotta è stata ricavata dall’estrazione della roccia che è servita a costruire il castello qui sopra. È quindi uno svuotamento che ha generato un pieno, e che a sua volta è stato riempito di funzioni e di ruoli (ordinati in uno dei pezzi più belli, il pannello mobile e pieghevole in PVC Timeline): fondo marino, cava d’estrazione, ossario, rifugio antiaereo, ricovero per le opere d’arte, abitazione per gli sfollati (nel secondo dopoguerra), deposito di letame, zoo, luogo di incontri.
Gli “scarti”, i rifiuti, ciò che buttiamo – ciò che rimane, dopo un lungo processo, e si sedimenta nel tempo. Questo luogo contiene letteralmente l’identità della città – è questa identità.
RECUPERO & RIATTIVAZIONE.
Così, fonti testimonianze documenti storie memorie precipitano in una sorta di “buco bianco”, che invece di risucchiare rimanda ed elabora energie mentali. I misteriosi, poveri, spettacolari centrotavola in cemento, dipinti con i colori – giallo e nero – che settant’anni fa indicavano gli edifici distrutti dai bombardamenti, o che mimano una scritta sulla sabbia “ora”), o ancora decorati con vetri di bottiglie Ichnusa sbriciolate, che ricordano e simboleggiano i vetri esplosi sulle teste dei detenuti dell’ex carcere di Buoncammino, sempre durante un bombardamento, il Medioevo, il pulpito di Guglielmo, i fenicotteri, i fossili preistorici, il muflone e lo zoo, il Fascismo, la scultura della Pietà di Francesco Ciusa messa al riparo qui dentro, i bambini (oggi anziani, intervistati nel video) che dopo la guerra entravano, al buio, per sfidarsi, e tremavano di paura attraversando di corsa lo spazio: tutto precipita e cade e collassa in questo progetto, e tutto emerge contemporaneamente dall’oblio – tutto è presente nello stesso momento, compresente, diverse linee temporali si incrociano e si sovrappongono nel medesimo spazio, perché così è, così deve essere.
Fantasmi, presenze, assenze, ricordi perduti, tremori e terrori dimenticati si uniscono qui, in un progetto che, io penso, è un modello di quello che un artista dotato di costanza, ostinazione e talento può fare quando sa ciò che vuol fare, e ciò che vuol dire. Quando cioè si mette davvero al servizio di una comunità.
Christian Caliandro
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