Il punto di vista (fiabesco) di Peter Brook
Al Teatro Storchi di Modena, Emilia Romagna Teatro ospita “Battlefield”, l’ultimo spettacolo in ordine di tempo del novantunenne regista inglese Peter Brook. In questo lavoro essenziale, di sottrazione, senza picchi né rilievi, si coglie la necessità di comunicare una propria idea sul mondo e sul teatro, ripartendo da un vecchio archetipo.
UN RACCONTO MILLENARIO
Per leggere Battlefield, creato e ideato da Peter Brook – in collaborazione con il drammaturgo Jean-Claude Carrière e la co-regista Marie Helène Estienne – bisogna considerare ciò che lo stesso regista scrisse nel suo libro Il punto in Movimento a proposito dell’opera Mahabharata del 1985, monumento del teatro contemporaneo della durata di nove ore e parte prima di questo suo nuovo lavoro. Brook affermava: “Uno dei modi più affascinanti per avvicinarsi al Mahabharata in India è attraverso i cantastorie locali, i quali non soltanto suonano il proprio strumento musicale, ma lo utilizzano anche come elemento scenico per suggerire l’idea di un arco, di una spada, di una mazza, di un fiume, di un esercito o di una coda di scimmia”. Battlefield è innanzitutto questo. É suggestione visiva di un racconto millenario che attraverso il potere della parola dispiega il suo significato.
RITMO IN SCENA
La scena è arredata con qualche seduta disposta casualmente, ornata di drappi rossi e gialli, mentre alcuni bastoni di legno sono collocati in piedi, appoggiati alle pareti della scena o sistemati per terra. Sul lato destro prende posto il percussionista giapponese Toshi Tsuchitori il quale, con il suo tamburo tra le gambe, detta i tempi delle battute, scandisce i momenti di inizio e di conclusione alle scene di rappresentazione che gli attori propongono al centro del proscenio. É il rythmos entro cui Carole Karemera, Jared McNeill, Ezry Nzaramba e Sean O’ Callaghan raccontano di una guerra fratricida tra le famiglie Pandava e Kaurava alla fine della quale, tra distruzione e annientamento, il vincitore Yudishtira, re dei Pandava, ammette la propria sconfitta. Se è vincitore, di quale sconfitta si tratta? Quella con il mondo, quella contro l’essere umano che si è distrutto vicendevolmente, come afferma il Mahabharata. É nel poema indiano, quindi, che Peter Brook cerca le risposte per comprendere il mondo contemporaneo, il suo pensiero dominante, rinunciando ad agire, perché impotente di fronte a tutto questo e a cui resta soltanto il racconto. In scena, infatti, gli attori propongono miti, storie, credenze in un continuo ampliarsi di quadri visivi. Il pubblico, quindi, viene a sapere che la principessa interpretata da Carole Karemera concepì un figlio dal Sole e lo consegnò alle acque. Duryodana, il figlio rifiutato, era in realtà il fratello di Yudhisitra, principe vittorioso e sopravvissuto, ora divenuto un guerriero maledetto. Il vecchio re, interpretato da Sean O Callaghan, inoltre, proprio come Lear o Edipo, insieme alla principessa si è successivamente esiliato nella foresta e insieme alla donna osserva attraverso il fuoco le schiere di guerrieri morti entrare nel cielo.
UN TEATRO POCO RUMOROSO
Battlefield è anche racconto metaforico. Qui gli animali parlano, senza maschera, con il corpo, l’ironia e la parola degli attori. Niente, quindi, appare nascosto, perché tutto deve essere mostrato, deve essere percepito e vissuto dal pubblico, tranne il momento finale in cui, in un fermo immagine, gli attori sono seduti uno accanto all’altro, inermi, come i monaci buddhisti in contemplazione della Roccia d’oro nella celebre fotografia di Hiroji Kubota. Questi, come gli attori, sono immobili, schiacciati dall’ultima fondamentale domanda, la cui risposta si consolida in un mormorio all’orecchio che nessuno sente.
Quest’opera teatrale è l’esemplificazione di un teatro poco rumoroso, essenziale, di sottrazione, priva di quell’utilizzo di interdisciplinarietà a volte pleonastiche, trasportato dal lento tambureggiare di Tsuchitori, in cui il fango, il sangue, le lance che uccidono e trafiggono i fratelli si sentono, si percepiscono per il segno tagliente della parola. É un cratere entro cui lo spettatore osserva, registra e solo successivamente, superata la patina della narrazione fiabesca, riversa significati e simboli che meglio riescono a spiegare la sua realtà, grazie all’intarsio di storie che richiamano altre storie e altri spunti. Battlefield è una meditazione su ciò che resta, sia materialmente che nella mente dell’uomo, in una visione lungimirante e profetica di una persona, Peter Brook, capace di analizzare e comunicare con la leggerezza e semplicità che appartiene agli immortali.
Davide Parpinel
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati