La saga degli Atridi secondo Antonio Latella
Otto ritratti di una grande famiglia, attinti dalle tragedie di Euripide, quale esito finale di un lungo lavoro del regista Antonio Latella con gli allievi del Corso di Alta Formazione di Emilia Romagna Teatro Fondazione. Un percorso che ha messo in relazione giovani attori e drammaturghi per affinare, stimolare e rendere esplicita la propria arte autoriale, interrogandosi sulla necessità della parola tragica oggi.
UNA FAMIGLIA TRAGICA
Entrando troviamo un gruppo di attori seduti attorno a un tavolo con dei copioni in mano, alle prese con la lettura, in prova, dell’Ifigenia in Aulide, da Seneca ed Euripide, che di lì a poco si tramuterà in una squassante messinscena originata dal conflitto tra i due fratelli Tieste e Atreo. È la maledizione e l’antico peccato di hybris di Tantalo, tramandato di padre in figlio. È la sindrome della guerra a ricordarci il prezzo non simbolico pagato da Agamennone col sacrificio della figlia agli dei, per evocare il vento necessario a fare salpare le navi della spedizione punitiva contro Troia. Alla sensazione iniziale di essere degli intrusi, sedendo di fronte agli attori, subentra un totale coinvolgimento nelle vicende pubbliche e private di un gruppo di famiglia, in un interno nel quale si squarcia un mondo tragico di uomini e dei. Ed è un vano domestico la lunga scena delimitata da una parete laterale con cinque porte, qualche divano, una piccola cucina, un frigo, due grandi specchi frontali che riflettono il pubblico, e altri oggetti e arredi che si aggiungono o si sottraggono col trascorrere degli eventi. Questo l’inizio di Santa Estasi, al Teatro delle Passioni di Modena, monumentale progetto di Antonio Latella dedicato ad alcune figure della tragedia greca. Otto ritratti di famiglia, come recita il sottotitolo: quella degli Atridi. Si scandaglia nella loro vita privata, nelle vicende personali e pubbliche, nelle reazioni emotive e nelle implicazioni di azioni e scelte, uccisioni, tradimenti e inganni, che determineranno la storia di una dinastia.
LATELLA, LO SPERIMENTATORE
Scardinando ancora una volta i meccanismi teatrali e produttivi, Latella compie un’altra delle sue sperimentali e spiazzanti imprese, frutto di un lungo lavoro di cinque mesi in qualità di pedagogo, con sedici giovani attori, allievi specializzandi del Corso di Alta Formazione dell’Ert-Emilia Romagna Teatro, coinvolti anche nel processo creativo. Lo spettacolo è concepito da otto quadri autonomi ma che compongono un unicum, una maratona di sedici ore, appassionante evento esperienziale. Oltre alla messinscena – di geniale creatività nella semplicità dei mezzi – un’attrezzeria ricavata da precedenti allestimenti, tra cui un enorme unicorno da giostra, e alla generosa resa degli attori, l’operazione più interessante è l’aver “osato”, con esiti felici, la riscrittura o l’adattamento delle tragedie classiche – soprattutto di Euripide – affidandole al talento di sette diversi giovani drammaturghi che hanno lavorato in diretta, fianco a fianco col regista e gli attori, maturando una rielaborazione di linguaggio che, con esiti diversi, esplora i confini della tragedia classica, immettendola in un oggi che cancella la distanza del tempo, ne prolunga il significato, fino a toccare scienza e etica. Un rispecchiamento che è incontro-scontro con la cultura odierna e il senso del tragico. Destituiti di ogni dignità eroica i personaggi della grande saga borghese degli Atridi assomigliano al nostro presente in forza di una umanità che, partendo dalle colpe dei padri e dalle maledizioni perpetrate, li coglie nelle loro debolezze e volubilità, dubbi e certezze, desideri e paure, in un combattimento tra vita e morte.
TRA GAG E PATHOS
Si parte dall’Ifigenia in Aulide, dal Tieste di Seneca e di Euripide, cui seguono Elena, Agamennone, Elettra, Oreste, Eumenidi, Ifigenia in Tauride, e infine Crisotemi. C’è tutto lo spessore tragico nell’andamento visionario, spesso parodistico, tra gag e pathos, che si sussegue tra un capitolo e l’altro, impossibile da descrivere scenicamente per l’accavallarsi di azioni di grande inventiva – che è sfida continua con la parola –, con personaggi ricorrenti, come Agamennone e Menelao, Oreste e Clitennestra, attori in più ruoli, cambi a vista, incursioni tra il pubblico, entrate e uscite. E canzonette come Cicale, o Yellow submarine, e Dance me to the end of love; suoni, rumori e ronzii di zanzare; urla al microfono. Ma sono da ricordare almeno alcune sequenze: i baci furiosi fra Elettra, Oreste e Pilade; il coro all’unisono gridato in greco con movenze di danza e colpi di bastoni; i due stralunati messaggeri in tenuta da tennis; l’incontro emotivo tra Oreste e la madre che lo coccola sulle sue gambe mentre lui la uccide pettinandole i capelli e poi mettendole la testa dentro il forno della cucina; l’arrivo di Menelao in veste di bagnante con collana di fiori e bandana; la lenta vestizione da parte di Elettra del corpo morto di Agamennone sopra un tavolo e il ballo tra i due. E non si smetterebbe di descrivere, citando anche i bravissimi interpreti, tra cui, senza far torto agli altri, si ricordano Christian La Rosa, Federica Rosellini, Isacco Venturini, Alessandro Bay Rossi, Leonardo Lidi, Barbara Chicchiarelli, Marta Cortellazzo Wiel.
LA SEMPLICE CRISÒTEMI
L’ultimo capitolo, Crisòtemi, si sofferma su un personaggio mai indagato dai tragediografi, ora oggetto di una nuova scrittura di Linda Dalisi, dopo l’unica esistente nel poemetto del poeta greco Ghiannis Ritsos. Un po’ come Ismene rispetto ad Antigone, così Crisòtemi sta a Elettra, apparendo nella tragedia dedicata da Sofocle al suo furore vendicativo, come la sorella passiva. Ritsos le fa dire: “Perdono. Scusatemi, scusate quest’essere insignificante, che non ha alcuna azione di cui andare fiera…”. La tempra dolce, remissiva, non eroica, della quarta figlia di Agamennone e Clitennestra ne fa un personaggio senza alone tragico o ancor meno mitico, testimone non protagonista della storia perché mancata complice di Elettra e Oreste nel cruento Putsch famigliare contro la destabilizzazione di Egisto in combutta con la regina madre. L’indole di una Crisòtemi sensitiva e innocente, e mai integrata, quel suo attaccarsi a particolari innocui, le conferiscono una disinvoltura colma di stupori e dolori che la rendono apparentemente “semplice”. Linda Dalisi la chiama “la figlia che non c’è”. Ce la restituisce una vibrante Giuliana Vigogna, uscita da un armadio in uno struggente monologo di affascinante levità, una scrittura di classicismo frugato nelle cicatrici belle e misteriose, tra rumori di piatti e bicchieri mentre imbastisce la tavola per “il pranzo che non si farà”. Mentre sistema le sedie, parla prima al padre seduto e silenzioso, infine con tutti gli altri fantasmi della famiglia rievocando gli eventi luttuosi cui lei ha assistito, e assestatisi in una memoria che li attenua. Fatti che vuole cancellare dal ricordo. L’arrivo lento e muto dei commensali, e il sistemarsi di Crisòtemi in braccio al padre, succhiando al suo seno, suggella uno spettacolo memorabile che si vorrebbe non finisse più.
Giuseppe Distefano
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