Gian Maria Tosatti. Terra dell’ultimo cielo
Una riflessione sull’ultima puntata delle “Sette Stagioni dello Spirito” di Gian Maria Tosatti. Al confine tra società e spiritualità. Scavando incessantemente nella storia collettiva.
Qualche volta s’incontro l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.
Eugenio Montale, La Storia (in Satura, 1971)
Napoli, 16 giugno 2016.
Le finestre scorticate – la realtà fuori (palazzi rossi, balconi grigi – condizionatori bianchi – persiane verdi). INFISSI. Antenne. Muri scrostati, neorealisti. ERBA.
Erbacce.
Cespugli.
SBARRE (arrugginite).
Il deserto di una terrazza: alberi, cespugli; ferri appuntiti, ringhiere; lamiera ondulata.
AFFRESCHI (‘500? ‘600?). L’ingesso sprangato di una chiesa.
Una dimensione diversa, differente: spirituale, metafisica, immateriale (SOMMERSA?).
Emersione.
Neon impolverati, consumati. In alto (:l’insegna sorella SALA DA BARBA). ((spazio sacro))
Tende diafane – atmosfera rarefatta, sospesa.
(Teli di plastica trasparente). Carta velina bianca. Sospensione. Sentimento infantile dell’avventura e della scoperta.
Volte a sesto acuto, sbiancate.
Panchine verdi, consunte.
Le scrivanie di Lucifero, vuote: in fila. Spoglio, tutto spoglio.
La tinta chiara – crema, delicata – delle scale che salgono. Una porta verde sbarrata (crema verde marrone) assi slavate dal tempo.
***
Cibo/acqua mentale, spirituale.
L’altare. E dietro l’altare… la camera di Lucifero, con un letto matrimoniale e arredi d’antan – m’immagino Gian Maria con la coppola e la sciarpa e persino la faccia di Eduardo in Napoli milionaria!, che va avanti e indietro tra i fornelli e il tavolo – una trappola luminosa – un sogno postbellico, un ritratto ideale di Napoli ’44, De Filippo e Norman Lewis, Longanesi e Soldati, Malaparte appena uscito di prigione e in visita alle grotte degli sfollati…
***
…bisogna camminare soli come cani e in piena notte,
bisogna inevitabilmente scontentare
chi ha razionalizzato le rotture di ieri
ma non è in grado di capire quelle necessarie oggi…
Antonio Moresco, Lettere a nessuno (1997; 2008)
In treno da Taranto a Siderno, 7 luglio 2016.
E Gian Maria con le Sette Stagioni scava scava (imperterrito, cocciuto) nell’identità di noi tutti – nella terra spettrale che è la Terra dell’Ultimo Cielo – scava scava senza sosta riesumando pezzi scrostati di storia collettiva e di memoria divisa – materiali psichici residuali, di scarto, di risulta – un dopoguerra infinito e lacerante, lungo settant’anni: mai visto, inedito e inaudito (un dopoguerra Anni Quaranta, Anni Settanta, così come Anni Zero e Anni Dieci) – scava e scava alle soglie di una guerra civile sotterranea, mai dichiarata eppure attivissima, riportando alla luce i fantasmi/soldati a migliaia, a milioni, senza volto né voce – gli sconfitti di un miracolo mai avvenuto (il paradossale “miracolo per pochi” di cui parlava Bianciardi ne La vita agra), gli spettri inconciliabili nascosti nei crolli della storia raccontata, negli anfratti e negli interstizi della continua e ossessiva rimozione che sostanzia il nostro rapporto con il passato, e dunque il nostro presente – e con ogni probabilità anche il nostro futuro.
Queste stanze, queste scale, questi corridoi, questi oggetti, questi piani che compongono le sette opere (a loro volta: un’unica opera, mostruosa) non lasciano scampo: perché se Le Sette Stagioni dello Spirito sono un percorso mistico, una narrazione sociale e spirituale, è altrettanto vero che esse sono un racconto dell’orrore – in salsa italiana. È un orrore molto specifico, nutrito in parti uguali di tragedia e di commedia (come tutte le nostre cose migliori, del resto) – e viene da lontano. Uno stranissimo incrocio tra Lovecraft ed Eduardo. È il medesimo orrore di certe pagine allucinate della Ortese (Il mare non bagna Napoli), o di certi episodi fulminanti di Malaparte (Kaputt, La Peste) e di Longanesi (Parliamo dell’elefante). È un orrore dunque che ha un respiro lungo, italianissimo, profondo e nobile; e proprio per questo, per questa sua italianità irriducibile, fatta di critica e di repulsione e di illuminazione dei fatti oscuri e crudi che normalmente vengono taciuti, per “quieto vivere” – oggi quasi del tutto dimenticato.
È un atto di sfida (incosciente e spericolato, certo: ma responsabile, e sostenibile) contro l’atavico cinismo nostrano che già Leopardi scandagliava da par suo nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani: “Ed ecco che gl’italiani sono dunque nella pratica, e in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque filosofo straniero, poiché essi sono tanto più addomesticati, e per così dire convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità d’ogni cosa, e secondo questa cognizione, che in essi è piuttosto opinione e sentimento, sono al tutto e praticamente disposti assai più delle altre nazioni. Or da ciò nasce ai costumi il maggior danno che mai si possa pensare. Come la disperazione, così né più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita, sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e dell’immoralità. Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggiore peste dei costumi, de’ caratteri e della morale. “Non si può negare; la disposizione più ragionevole e più naturale che possa contrarre un uomo disingannato e ben istruito della realtà delle cose e degli uomini, senza però essere disperato né inclinato alle risoluzioni feroci, ma quieto e pacifico nel suo disinganno e nella sua cognizione, come son la più parte degli uomini ridotti in queste ultime condizioni; la disposizione, dico, la più ragionevole è quella di un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azione.”
***
Il lavoro di Gian Maria risiede così, e trova il suo centro, in questo tentativo di riportare alla luce le radici sommerse di chi noi siamo – e forse, soprattutto, di chi vogliamo essere. (L’amarezza italiana risorge, inattesa, in vesti nuovissime e antiche.) Ed è chiaro che questa operazione poteva dispiegarsi appieno solamente a Napoli: il “Paradiso abitato da diavoli” di Croce, baluardo di resistenza umana in un’Italia ormai abitata da umanoidi – una delle ultimissime città ANTICHE del pianeta (insieme forse a Teheran, a Palermo, a Kyoto e alla martoriata Aleppo), antiche sul serio e non perché incrostate e disseminate di ruderi – nel senso che l’antico è qui vivo e vegeto, respira inspiegabilmente in modo terribile e splendido, si aggira per le strade e non è ridotto a rovina turistica o a scoria scollegata dal resto dell’esistenza e cristallizzata. Qui a Napoli, un tipo enormemente interessante di rovina è all’opera, e agisce dunque anche nei lavori di Gian Maria. Una rovina cioè che riesce a diventare nucleo radiante e pulsante di una forma-di-vita radicalmente alternativa rispetto a quella presente, in apparenza maggioritaria.
“‘A guerra nun è fernuta… E nun è fernuto niente!”: riconoscere questa verità, prendere coscienza di questa realtà (e attorno a esse riorientare l’intero quadro) è un’elaborazione enorme, la costruzione di uno sguardo che avrà conseguenze difficilmente calcolabili per l’arte e l’immaginario del futuro italiano.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati