Rapporti sulla cultura. Basta con le approssimazioni
Quanto sono approfonditi i rapporti sulla cultura? E quanto fedelmente descrivono le attività e i risultati delle Industrie Culturali e Creative? La riflessione di Stefano Monti sulle lacune e le approssimazioni dei report culturali.
TRA ECONOMIA E POLITICA
Bisogna ammetterlo. La creazione del Cluster delle Industrie Culturali e Creative, così come il riconoscimento degli impatti intersettoriali che la cultura (nelle sue varie forme) genera sul territorio, sono due intuizioni politiche ed economiche molto potenti.
È anche grazie a esse che la cultura sta vivendo un periodo di riconoscimento generale e di emancipazione dalle dinamiche elitaristiche e di potere.
Bisogna però anche ammettere che questo processo non può dirsi concluso se non si avvia una onesta riflessione sulle metriche di misurazione della cultura.
Trovare una serie di indicatori che tengano conto delle varie incoerenze strutturali che caratterizzano il comparto, delle metriche esatte con le quali monitorare le performance mostrate dalle organizzazioni di differenti dimensioni aziendali, avere un data-set che permetta di valutare in modo comparabile gli effetti che la cultura ha sul resto dell’economia in tutto il territorio europeo.
Sembrano banalità. Ma basta leggere qualunque rapporto sulla cultura [come Symbola o il report di Federculture, N.d.R.] per capire che senza queste banalità il mondo delle ICC e dei cosiddetti impatti finirà col diventare una “bolla” che prima o poi (quando l’interesse politico sarà volto altrove) scoppierà del tutto.
LA CULTURA COME INDUSTRIA
Come gruppo, siamo abituati a leggere report di differenti comparti industriali, ed è innegabile che quelli sulla cultura presentano il più elevato tasso di ambiguità. Sia ben inteso, la responsabilità non è di chi li redige, quanto piuttosto dell’assenza di dati certi, o quantomeno approssimativi, di proxy realistiche che siano state condivise attraverso documenti ufficiali.
Se siamo tutti d’accordo che le ICC possano essere considerate come un comparto industriale, allora i report legati alle ICC dovrebbero essere confrontabili con quelli di altri comparti (metalmeccanica, finanza, biochimica). Conosciamo già le ovvie obiezioni (la cultura non è un bullone, o un prodotto finanziario, la cultura ha delle caratteristiche differenti), ma se vogliamo accreditare queste obiezioni allora bisogna eliminare del tutto la categoria delle ICC (Industrie Culturali e Creative) e chiamarle in altro modo.
L’insieme eterogeneo delle forme culturali e creative e gli imprevedibili effetti che queste sono in grado di generare sul territorio possono essere considerati come asset fondamentali di molti dei Paesi industrializzati, ma mancano delle basi conoscitive che ne permettano analisi in grado di avere insight importanti, indirizzi di mercato.
I bug sono sostanzialmente di due tipi: uno è legato a dinamiche di “approccio mentale” e di “utilizzo”; l’altro è invece tecnico-strutturale.
STRATEGIE E DATA-SET
Per essere più chiari, proviamo a fare un esempio: quando un investitore legge un report sull’andamento dell’industria metalmeccanica, lo legge per comprendere in che settore, in quale regione geografica, in che impresa sarà a suo avviso conveniente investire. Per questo i report negli altri comparti sono a cadenza settimanale. Riescono a fornire una visione sempre aggiornata dell’andamento del mercato e permettono a chi li legge di avere un’idea chiara di queste dinamiche.
Chi legge questo articolo probabilmente è anche solito leggere report del mondo culturale; allora a loro rivolgiamo una domanda: investireste i vostri risparmi in questa o quell’azienda culturale sulla base dei report che vengono realizzati?
No, vero?
Questo confronto permette di porre in evidenza la visione esclusivamente “politica” che si sta facendo delle Industrie Culturali e Creative. I report annuali, che prendono in considerazione grandezze spesso incomparabili tra loro, non servono se non nei convegni, nelle tavole rotonde per convincere che le industrie Culturali e Creative sono un settore in cui è giusto investire. Per permettere al politico di turno di affermare che la riconversione dell’economia ha generato sul territorio crescita e valore aggiunto. Questo è un approccio sbagliato, il quale traduce in termini contemporanei un fare paternalistico che da sempre frena l’emergere di un vero mercato della cultura.
Legato a questo aspetto in maniera indissolubile, è poi l’assenza di un data-set unitario che permetta di confrontare (seppur all’interno di un modello, un framework, con le dovute approssimazioni e ipotesi di base) quanto la cultura abbia inciso a Berlino e a Pedesina.
A oggi, sebbene la creazione di indicatori sia una grande pagina della retorica culturale contemporanea, questi indicatori non esistono. E persino Eurostat non ha un set dedicato in maniera esplicita alla cultura. Questo è un ostacolo fortissimo, è un limite che non permette di comprendere come il mondo delle ICC si stia evolvendo, se si stiano prediligendo imprese di piccole dimensioni o aziende quasi multinazionali.
LA SOLUZIONE
La soluzione è semplice. Tra tutti i fondi che vengono destinati alla cultura (da ultimo il fondo di garanzia per prestiti a MPMI emanato dalla Commissione Europea), si crei un progetto che metta insieme i più rinomati economisti della cultura internazionali, i più attivi operatori del settore e gli operatori dei sistemi statistici europei e nazionali, dando così forma al data-set per la cultura. Oppure richiamiamo la commissione Stiglitz- Sen-Fitoussi e affidiamoci alla sua conoscenza dell’economia.
Qualunque sia la soluzione che si voglia trovare, non importa. Perché non è detto che bisogna arrivare a misurare l’immisurabile. La questione è molto più concreta: la creazione di una base di informazioni affidabile è uno strumento necessario perché cultura e ICC divengano dei settori produttivi a tutti gli effetti.
Senza queste informazioni, la cultura continuerà a essere quello che è stata per anni, decenni e secoli: un bellissimo argomento di conversazione.
Stefano Monti
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